Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/168

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160 fausto.

gione: viva la Ghituccia; il fiore delle belle, lo specchio delle fanciulle! E le tazze e i viva andavano in volta, e quei primi spacciatori di lodi ammutolivano. Ed ora! — ahi, è tal dolore da stracciarsene i capelli, da dare del capo nelle muraglie! Ora, ogni mascalzone potrà farmi onta coi motteggi, e arricciare malignamente il naso; ed io dovrò infingermene e star cheto come un fallito dinanzi il creditore; io dovrò sudare per ogni leggiera parola pur detta a caso; e ancorchè io sfracellassi a tutti costoro il capo di mia mano, io non potrei dire a nessuno: Tu te ne menti.

Chi viene per di là? chi quatto quatto rade il muro a questa volta? S’io non m’inganno sono in due. Oh, se è desso, io lo concio pel dì delle feste; egli non mi scapperà vivo dalle mani.

FAUSTO e MEFISTOFELE.

Fausto. Quale tu vedi lassù fuor per la finestra della sacrestia spargersi il lume della lampana eterna, e più e più fioco venir meno, e le tenebre addensarsi d’ogni intorno, — tale si annotta nell’anima mia.

Mefistofele. Ed anzi io muoio di voglia come il mucino che s’inerpica di nascosto su per la scala a canto al fuoco, e poi va via stropicciandosi alla parete. Provo anch’io non so che rimordimenti di coscienza, sol che non avessi addosso un po’ del pizzicore de’ ladri, e un po’ della fregola de’ gatti. Io mi sento andare per tutte le membra un soave solletico pensando alla magnifica notte della Valburga. Essa riviene posdomani, e si sa allora perchè si veglia.