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Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/536

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528 fausto.


ALLA CORTE DELL’IMPERATORE.


Teatro.

L’Attore che fa la parte del Re mostra di essere sfinito.

Mefistofele. Bravo, mio vecchio Fortebraccio! civettone di antico vezzo! eccoti là allediato e indisposto; men duole, tel dico con tutta l’anima. Ma via, coraggio. Ancora un motto, noi non udremo sì tosto a favellare un re.

Il Cancelliere. Ed è per questo che ne è data più di frequente la ventura d’ascoltare le sagge parole di Sua Maestà lo Imperatore.

Mefistofele. Gli è un altro caso; e Vostra Eccellenza ha troppa ragione di protestare. Quanto noi diciamo — noi poveri stregoni — è al postutto futile e inconseguente.

Fausto. Zitto! zitto! ei si rianima.

L’Attore. Va, o cigno antico! va! sii mille volte benedetto per quel tuo canto estremo, per tutto che m’hai fatto udire di buono. Il male onde fosti cagione è cosa da non farne conto....

Il Maresciallo. Parlate un po’ men alto, che l’Imperatore dorme! Vostra Maestà pare che non istia troppo bene.

Mefistofele. Sua Maestà non ha che a darne il cenno, e noi la facciam finita in sull’atto. Intanto a gli Spiriti più nulla avanza da dire.

Fausto. A che fine vai tu ruotando gli occhi all’intorno?

Mefistofele. Vo cercando ove diacine possano le