Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/122

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ch’un uom se l’abbia, ed io sia vilipeso,
né mi succeda almen vendetta farne?
Tu, Dio, m’hai solo il mio valor conteso
ch’io non tenti le forze di sua carne!
Lascia ch’un poco (perche ’l nieghi?) al teso
mio laccio riconduca le tue starne !
Vedrai s’esse di noi piú fían, o manco,
degne di starti o a l’un o a l’altro fianco! —
61
Cosi volgea nel cor tutto infiammato
quel superbo, maligno e al ciel rubello.
Poi, toltosi sul voi, qual affamato
falcon rapace o simil altro augello
ch’abbia per far presaglia assai tardato
e poi si parte disdegnoso e fello,
tal, visto il suo dissegno andar fallito,
fugge Lupaccio e va trovar Cocito.
62
Qui, mentre di Plutone il consistoro
sedeva in lunghi e vari parlamenti,
che tosto ad esser ha l’etá de l’oro
donde salve ne fien tutte le genti,
entra l’orribil mostro, che di toro
le corna ed ha di porco fuora i denti,
ed ivi afferma, come tutti sanno,
esser giá presso del lor regno il danno.
63
— Io — disse — fermamente creder voglio
(se le fattezze, i modi e l’altre note
discerno si come discerner soglio)
d’Arabia nei deserti per ignote
balze vedute averlo, ed ho cordoglio
che fien le posse nostre casse e vote
contra le sue, perch’esso è quel gigante
ch’eguará i monti e svellerá le piante. —