Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/121

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Qui si contien piú giorni, or giú ne l’ima
valle solingo, or sopra un gran rivaggio.
Ed ecco s’era imposto a l’alta cima
d’un monte ancor piú orribil e selvaggio
un di que’ spirti neri, cui da prima
fu per lor boria spento il santo raggio,
e vide andar Iesú spedito e franco
da’ lacci suoi, ma per gran fame stanco.
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Come l’astuta insidiosa aragna,
ch’abbia di lunghe corde in mille nodi
tessuta sottil rete a la campagna,
ove la sua nemica forse annodi,
sta su l’aviso e alfin s’attrista e lagna
ch’effetto ancor non abbian le sue frodi;
cosi l’angel cornuto indarno tese
avea sue trame e le fatiche spese.
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Tremò Lupaccio (ché Lupaccio detto
era quel spirto) e s’ammantò d’un sasso:
— Se non me ’nganna — disse — lo ’ntelletto,
colui eh ’altiero vien di lá sul passo
sará quel giá cresciuto pargoletto,
che far debbe di noi si gran conquasso
quando muorendo anciderá la Morte
e de l’inferno romperá le porte,
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e ne trará quel carco, quella preda,
quell’uman seme a noi tanto odioso,
perch’al Tonante piace ch’egli seda
nel ben da noi perduto si gioioso.
Esser può dunque ch’un fral uom posseda,
tutto ch’ai viver dritto sia ritroso,
quella suave eternamente gioia,
quei piacer manchi di gravezza e noia?