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Piacque l’ardir de l’arrogante cane
a l’invido senato del ben nostro:
corre la fama per spelonche e tane
del doloroso e miserabil chiostro.
Frattanto d’un agnel sotto le lane
a l’alma luce venne il falso mostro,
cerca ogni macchia e buco di que’ monti:
luoco non è ch’or non discenda or monti.
69
Stava l’empireo e vago dongelletto
leggiadramente allor s’un ceppo assiso:
non ha pur dove ’l capo acchini, un tetto
Chi a noi fa del suo regno un paradiso;
da cibi astiensi, come che ristretto
sia da la fame che gl’ imbianca il viso:
era di di quaranta il fine allora
che cosa non avea gustato ancora.
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Ecco ’l malvagio cane si gli affaccia,
ed ha colme di sassi ambe le spanne:
— Ho pur — disse — tenuta si la traccia
per questi boschi e paludose canne,
ch’ornai ti veggo; e, acciò non ti disfaccia
la fame, ecco le pietre, tu pan fanne:
qual altro di te meglio far può questo,
che sei di Dio figliuolo manifesto? —
71
Sorrise Dio verace a quella finta
bontá di chi nel mal peggio si porta;
poi gli risponde che non vien estinta
la fame col pan solo, ma ch’importa
via piú la vita umana star succinta
e pronta nel pigliar ciò che gli apporta
la bocca del Signor, che come figli
tutti ci pasce e campa degli artigli.