Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/174

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12
Ben troppo ebber audaci piedi e mani
per aggrapparsi a l’ardua salita;
ma risospinsi lor si come vani
cui sol per gloria fu virtú gradita;
e quanto eran piú saggi, piú lontani
da me tomaron giú senz’altra aita,
ché ’l caso di coloro è sol mortale
che poggiar voglion piú ch’affidan l’ale.
13
La sapienzia (non costei che meco
vedete unirsi come luce al sole,
quella delira e sciocca che d’un greco
nasciuta si fa dir di nostra prole)
infino a qui condotto ha ’l mondo cieco
e fatte in lui d’errori mille scole:
or io le ’mpagherò, pazza solenne,
che volar spera e indarno apre le penne
14
Da che col Padre fabricai la terra
ch’a sé sostegno sia, ch’a sé sia pondo,
a questi giorni il volto mio si serra,
ché di vederlo non fu degno il mondo
giamai. Vo’ scender giuso infin sotterra
e farmi vi vedere a tondo a tondo,
acciò tra gente altiera e troppo arguta
scusa non sia non mi v’aver veduta.
15
Tu, Caritá, tu, Pace, v’accingete
al venir meco in cosi nuova impresa,
anzi voi, sore tutte, soccorrete
fin ch’onorata palma siami resa:
andiamo insieme unite, ché mi siete
non importune ad una gran contesa!
Ver è che ’l tuo rigor, Giusticcia, voglio
sen stia fratanto chiuso in qualche scoglio.