Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/175

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Alzò la fronte allor quella severa
e: — Perché — disse — senza lui ti metti
a voler giú calar tra gente fiera,
tra man rapaci e frodolenti petti?
e perché tu, del ciel somma guerrera,
con esso brando mio non li sommetti?
Esso fa tanto, ch’io non vo’ dir piue:
mister quant’altra cosa a l’opre tue.
17
Ch’io ’l leghi a la catena in cavo sasso
non so veder perché, se mi rimembra
l’antico uman orgoglio, il gran fracasso
di quei ch’avean le gigantesche membra,
quando voltáro al ciel l’audace passo
lá dove il largo Eufrate un mar rassembra;
ed io, da lor schernita e vilipesa,
lasciai, per cui mandasti me, l’impresa.
iS
L’atto però non parveti da gioco,
avendone poc’anzi essempio e norma
d’angeli, ch’ésca son d’eterno fuoco,
mercé ’l rigor ch’or chiuso vuoi che dorma:
si veramente non ha teco luoco
ch’allor de la Superbia spari l’orma;
ché per suo mezzo Atlante, Olimpo e Calpe
nuotar sott’acqua, e fe’ sbucar le talpe.
19
Mio parer non è dunque (se la voce
ho teco qual sempr’ebbi) che tu vada
piú tosto a tòr che dare altrui la croce,
e pur voler ch’arrugini la spada
quest’uomo, il qual tant’ami, piú feroce,
calca la terra, e nulla il ciel gli aggrada
piú che Bontá gli applaude, e va si baldo
che non si duol, ma gode esser ribaldo. —