Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. III, 1914 – BEIC 1822407.djvu/123

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s’io lo mi posso al modo mio tenere,
non lascerò che delle braccia m’esca,
105ché senza lui non trovo alcun piacere.
E, benché fosca sia, deh! non gl’incresca,
ché il sol m’ha scolorata, e per lui bella
verrò piú di quantunque amor invesca!
E, s’Egli è pur quel che fra gente fella
no infermar deggia e assumer corpo umano,
figlio d’un fabbro detto e d’un’ancella,
si mi fia grato, e seco mi allontano
dalle superbe altezze: sol è buono
con lui calcar il mondo iniquo e vano!
115Se per altrui salute in abbandono
dará il suo corpo in sorte al freddo, al catdo,
a fame, a sete; ed io presta gli sono.
Scoglio cosi non siede all’onde saldo,
coiti’ io alle botte, per sua grazia, tanto
120che il cuor mi vien piú sempre da lei baldo.
Se mai, lassa! vedrò quel busto santo
languir tra man rapaci alla colonna,
rotto, impiagato e in croce svelto e franto,
come potrò questa corporea gonna
125non dare a quei famelici per strazio,
ch’io gli son pur la sua diletta donna?
Or non sia dunque al tempo maggior spazio!
Venga il mio caro ed unico tesoro,
ché mai, d’esso pensando, io non mi sazio!
130Se in lui, ch’anco non vidi, m’innamoro,
che fia quando vorrammi nelle braccia
e in letto della croce in quel martoro,
quando le piaghe di quell’alma faccia
irò suggendo con dolcezza tanta,
135che converrá mi slegua e in lui mi sfaccia?
Allor mi voglio a quella sacrosanta
persona unire, allor trarne tal prole,
ch’io detta sia per lei «beata pianta».