Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. III, 1914 – BEIC 1822407.djvu/160

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Come vogl’io che nel tartareo chiostro
stia quello, cui fregiamo il ciel di stelle,
30e per te quant’io l’amo ognor gli mostro?
Poi, vólto a Gabriel, pien di fiammelle,
gl’impon che quanto Ei dice presto faccia.
Egli s’annoda l’ale aurate e belle;
delle piú fine impennasi le braccia
35fra mille bei colori, e alla parola
di Dio compon la vereconda faccia.
Di ricamata d’oro e bianca stola
succinto, al Re fa il consueto inchino,
spande gli aurati vanni e in terra vola.
40Vola qua giuso a noi l’augel divino,
e dalla ottava spera in un momento
trovasi lungo alla cittá di Nino.
Qui di superbia mira l’argomento:
non torre piú, ma diroccata massa,
45ch’eguarsi al niobi 1 primo ebbe ardimento.
Questa sdegnando agli omeri si lassa,
giunge al petroso ed arido deserto
e varie cose attende mentre il passa.
Quel mar, ch’ebbe d’Egitto il re coperto,
50rade alla man sinistra, ed è sanguigno
dove Israel varcò nel fondo aperto.
Vede il fonte Maarath, che a porvi un tigno
addolci ratto e in lungo rivo crebbe,
per darlo in bere a quel popol maligno.
55Quel popol rio mormoratore n’ebbe,
cui d’esser sotto tratto a l’empie salme
gravose assai di Faraon increbbe.
Poscia descende alle settanta palme,
che a dodeci fontane porgon grati
60coperchi, e qui lavossi ambe le palme.
Sa ben che da quest’acque dissetati
fur quei malvagi e sempre a Dio rubelli,
piú degni di morir non anco nati.