Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. III, 1914 – BEIC 1822407.djvu/171

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Or quinci ancor speranza in me s’avviva.
Non pormi vo’ con l’uso a far contrasto;
105e a Dio girommi, ond’ogni ben deriva.
Egli potrá coppiarmi ad uom, che casto
forse con meco accorderá di starsi,
ambi col nostro armario in nulla guasto. —
Cosi sperando, co’ bei crini sparsi
110mi fu rimpetto addutta, e vereconda
gli occhi tenea per terra e al guardo scarsi.
Quando mi vidi quella pura e bionda
ninfa celeste a fronte, tutto svegno
e l’alma in me vien manca e tremebonda.
115Cagion nulla sapea né indicio o segno
di tanto in me stupor, se non che presto
mi giudicai di tal connubio indegno.
Pur io le do la mano; e, poi che il resto
del poco tempo ed intervallo passa,
120sposar tant’alta dea mi fu molesto.
Or ambo giunti alfin dove si lassa
il freno alla vergogna e al bel rispetto,
stava ella invita e con la fronte bassa.
Io il simil faccio, tutto in me ristretto;
125e tanto era l’onor mio ver’essa,
ch’io stavo rosso e muto a lei rimpetto.
Allor quella il suo voto mi confessa,
concorde al mio; e queste parolette
angeliche incomincia in voce pressa:
130— Caro Gioseppe, son due volte sette
giá gli anni c’ho serbato senza un nevo
di sozzo amor, cui castitá sommette.
Vorrei, piacendo a voi (giá non mi levo
al voler vostro), ancor portarli al fine.
135Morrò, se questo suco amar mi bevo.
Se i fior miei cari e l’erbe tenerine
fian messi ad esser paschi, or che mi resta
salvo che secche stoppie, cardi e spine? —