Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. III, 1914 – BEIC 1822407.djvu/250

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uscii di man del gran Maestro eterno.
Caddi, mortai divenni e preda fui
de l’inferno, fin tanto che nel petto
del mio primo Fattor pietá destosse
a riformarmi, a richiamarmi a lui.
Fu stupendo lo effetto e fu sol degno
de l’infinito e sommo Ben, che vòlse.
Ma i mezzi, con che l’opra si condusse,
vincon di maraviglia e di stupore
le menti ancor dei suoi corrieri ardenti.
Qual forza mai di lingua o d’intelletto
potria spiegar, potria capir quell’alta
incomprensibile unitá del santo
Verbo con la mia carne e quella interna
pace, che avranno i due contrari eterni
in subbietto, che inchiuda esser uniti
i due maggiori o piú lontani estremi,
che il gran cerchio divin cinga nel tutto?
Qual angel piú vicino al primo foco
potrebbe dire o penetrar giammai
in qual guisa, in qual forma ancor si vede
la radice del fallo oggi produrre
il frutto de la vita, ed in che modo
dal reo seme mortai gravida morte
mora nel parto, e mi si faccia tanto
chiara la notte de l’antico errore,
che le tenebre mie portino il sole?
Sol, che al sole dái lume e ai lumi lume,
eh’è nel mondo esemplar e in questo nostro
rotan felici i lor beati raggi,
qual bontá, qual pietá, qual alto, santo,
profondo, eterno, incognito consiglio
mi fa veder si lieta e si felice,
si necessaria la mia prima colpa,
acciò, tremendo ancor, senta l’inferno
che, ove il fallo abondò, la grazia abonda?