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350 | caos del triperuno |
CRISTO
Questa prigion da tutte parti porta
non ha, for ch’a l’entrare; ma ritorno
far indi e sovra girsen, via piú importa. [«Sed revocare gradum superasque evadere ad horas | Hoc opus, hic labor est». Virg.]
Questo è quel lungo nel mal far soggiorno:
non speri uman valor, chi uscirci vòle;
ed io lo guida son ch’altrui distorno.
Di che se ben sentissi, o ingrata prole,
quanto ti diedi e darti anco apparecchio
di questa cieca ed inornata mole,
non fôra mai che per alcuno specchio
di veritá lasciassi ’l vero lume,
avendo al falso pronto sí l’orecchio.
Son io la veritá, son io l’acume
del raggio che, volendo, sempre avrai:
persona i’ son de l’inscrutabil nume.
Io son l’amor divin, che ti criai
uomo simile mio, del ciel consorte,
se ’l cor porgi che pria t’addimandai. [«Graminibus pecudes pascuntur, rore cicadae, | Quadrupedum tigres sanguine, corde Deus».]
A te il mio regno, a me il tuo cor per sorte
convien. Stolto sarai se darmi ’l nieghi,
ché nol facendo ti verrá la morte!
Morte, fera crudele, ai lunghi prieghi
che le sian fatti acciò non ti divore,
immobil sta, non che punto si pieghi.
Ma se remetti ne le man mie il core
e per altrove porlo indi nol svelli,
non fia perché abbi tu di lei timore.
Soi tumuli, sepolcri, roghi, avelli
e quant’urne s’affretta empire d’ossa
non temer, né di forza ch’aggian elli.
Lei, di catene vinta in scura fossa
rinchiusa, freno; ché, sciôrse volendo,
talora si dimena con tal possa,