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capitolo quinto 91


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Ginamo a quel parlar si volse indrieto,
vede Milon e ratto si scolora.
Conte Macario, piú de li altri inqueto,
risponde alteramente: — Alla bon’ora!
Non siamo morti, no; ma starti queto
farestú meglio e non destar chi dorme.
— Anzi pur vegghi troppo — disse il conte —
in far a Chiaramonte oltraggi ed onte. —
25
Macario c’ha la lingua for di denti,
tenendo su la spada la man destra,
rispose: — Per la gola tu ne menti! —
e per ferirlo subito s’addestra.
Milon non stette a dir: — Tu ne stramenti! —
anzi un roverso con la man sinestra
menò sí ratto, ch’un poltrone zaffo
non ebbe mai da un bravo il piú bel schiaffo.
26
Levasi Carlo tostamente in piede,
che giá duo millia spade esser cavate
e contra quattro sol vibrar le vede.
Milon, che ’n mezzo tanti brandi e spate
era con tre famigli, vi provvede
ben tosto in quelle genti al mondo nate
per tradir sempre ed ingrassar la terra
di sangue e dov’è pace porvi guerra.
27
Con quella rabbia ch’un leon tra cani
vidi cacciarsi sotto Giulio a Roma,
smembrandovi mastini, bracchi, alani
con la virtú sí altera e mai non doma;
cosí Milon fra quei lupi inumani
convien che ’l brando in lor mal giorno proma,
truncando spalle, busti, gambe e braccia,
ed ov’è ’l stolo denso, vi si caccia.