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176 ii - vera storia di due amanti infelici


rispose un venerabil vecchio pastore: — quel giovane cosí buono ed infelice í... Tutti noi lo piangiamo, o signore; ma, vedete bene, le passioni sono un gran male! Eccolo lá fra quelle fratte, lungo quel ruscello, appunto sotto quell’elce: non lo sturbate per caritá! — Io gli sono amico: non temete, buon vecchio. E che fa egli? — soggiunsi. — Oh! sempre fra il bosco o alla cima del monte! Legge, sospira, si lagna, tace; e questa è la sua vita. — Io m’incamminai verso di lui. La natura dipingeva al mio sguardo un non so che di grande e di taciturno in que’ balzi selvaggi e ne’ petrosi fianchi dell’opposta rupe. Alto silenzio regnava attorno la foresta; non si udiva mormorar d’aura né un batter solo di foglia; soltanto il mesto gufo rompea col rauco e funebre strido la quieta solitudine di quella sera. Al calpestio de’ miei piedi ed allo strisciar delle vesti or dietro un basso virgulto, or d’un picciolo arbuscello, Iacopo s’accorse che alcuno s’inoltrava. Alzò la fronte, e, in atto di svegliarsi da un profondo letargo, volse attonite le pupille e mi guardò. Brillavano le tremule stelle nel firmamento, e la soave lor luce, scintillando fra le branche degli arbori, produceva un bel misto di bianco vivo e d’un gran verde nereggiante. Giunto ad esso vicino, lo salutai. Quando mi vide e conobbe, sedente ancora e stendendomi le braccia, trasse un lungo e debile: — Oh Dio! — Respirò alquanto. — Amico — mi disse, — vieni a chiudermi gli occhi! — E mi porse languidamente un bacio. Indarno tentai (ed io, cosí sventurato, il potea?) con ricercate parole di consolarlo. — Taci! —esclamò, ed, alzatosi, mi strinse fortemente una mano, e, guardandomi fiso fiso, tacitamente meco si diresse verso casa. In rimirarlo, mi si stringeva con fieri palpiti il cuore, né sapea frenare il pianto. Vedea le sue guance pallide e sparute, gli occhi smorti e incavati, la pelle aggricciata e scarna, le membra tutte sfinite, magre, addolorate. Ahi! piú ad ombra di morte che ad uomo vivo assomigliava. La sua dolce físonomia per altro imprimeva nelle anime sensibili non so qual amabile tristezza e melanconica simpatia.

Giunti a casa, ambidue sedemmo assieme ad una tavola. Ivi con aria patetica mi additò esser quella la sua camera e quello il suo letto. — Qui..., qui finirò pure i miei mali! — diceva, ed, abbassando la testa, incrocicchiava pensieroso le braccia. — È qualche tempo — riprese — ch’io vo stancando con fervide preci l’Eterno padre della natura che tronchi gl’infelici miei dí... Ma! non m’ode; no! mi niega questo lieve conforto...—