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ultime lettere di jacopo ortis 257


i suoi fratelli hanno dovuto fuggire la loro patria, e quella povera famiglia, destituta di ogni umano soccorso, è restata a vivere, chi sa come!... di pianto. Eccoti, o rivoluzione, un’altra vittima.

Sai ch’io ti scrivo, o Lorenzo, piangendo come un ragazzo?... Purtroppo! ho avuto sempre a che fare con degli scellerati; e, se alle volte ho incontrato una persona dabbene, ho dovuto sempre compiangerla. Addio, addio.

18 ottobre.

Michele mi ha recato il Plutarco, e te ne ringrazio. Mi disse che con altra occasione m’invierai qualche altro libro; per ora basta. Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure dell’umanitá, volgendo gli occhi ai pochi illustri, che, quasi primati dell’uman genere, sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro che, spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichitá, non avrò molto a lodarmi né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso. Umana razza!

23 ottobre.

Se m’è dato lo sperare mai pace, l’ho trovata, o Lorenzo.

Il parroco, il medico e tutti gli oscuri mortali di questo cantuccio della terra mi conoscono sin da fanciullo, e mi amano. Quantunque io viva fuggiasco, mi vengono tutti d’intorno, quasi volessero mansuefare una fiera generosa e selvatica. Per ora io lascio correre. Veramente non ho avuto tanto bene dagli uomini da fidarmene cosí a un tratto; ma quel menare la vita del tiranno, che freme e trema d’essere scannato a ogni minuto, mi pare un agonizzare in una morte lenta, obbrobriosa. Io siedo con essi a mezzodí sotto il platano della chiesa, leggendo loro le vite di Licurgo e di Timoleone. Domenica mi s’erano affollati intorno tutti i contadini, che, quantunque non comprendessero affatto, stavano ascoltandomi a bocca aperta. Credo che il desiderio di sapere la storia de’ tempi andati sia figlio del nostro amor proprio, che vorrebbe illudersi e prolungare la vita, unendoci agli uomini ed alle cose che non sono piú,