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258 | iv - seconda edizione delle |
e facendole, sto per dire, di nostra proprietá. Ama la immaginazione di spaziare fra i secoli e di possedere un altro universo. Con quanta passione un vecchio lavoratore mi narrava
stamattina la vita de’ parrochi della villa viventi nella sua fanciullezza,
e mi descriveva i danni della tempesta di trentasett’anni addietro, e i tempi dell’abbondanza e quei della fame,
interrompendosi ad ogni tratto, ripigliando il racconto, ed accusandosi d’infedeltá! Cosí mi riesce di dimenticarmi ch’io vivo.
È venuto a trovarmi il signore T***, che tu conoscesti a in Padova. Mi disse che spesso gli parlavi di me, e che ier l’altro glien’hai scritto. Anche egli s’è ritirato in campagna per evitare i primi furori del volgo, quantunque, a dir vero, non siasi molto intricato ne’ pubblici affari. Io n’avea sentito parlare come d’uomo di culto ingegno e di somma onestá: doti temute in passato, ma adesso non possedute impunemente. Ha tratto cortese, fisonomia liberale e parla col cuore. V’era con lui un tale, credo lo sposo promesso di sua figlia. Sará forse un bravo e buono giovine; ma la sua faccia non dice nulla. Buona notte.
24 ottobre.
L’ho pur finalmente afferrato nel collo quel ribaldo contadinello che dava il guasto al nostro orto, tagliando e rompendo tutto quello che non poteva rubare. Egli era sopra un pesco, io sotto una pergola: scavezzava allegramente i rami ancora verdi, perché di frutta non ce n’erano piú. Appena l’ebbi fra le ugne, cominciò a gridare: — Signore!— Mi confessò che da piú settimane facea quello sciagurato mestiere, perché il fratello dell’ortolano aveva, qualche mese addietro, rubato un sacco di fave a suo padre. — E tuo padre t’insegna a rubare? — In fede mia, signor mio, fanno tutti cosí. —
L’ho liberato; e, saltando a precipizio fuor d’una siepe, io gridava: — Ecco la societá in miniatura: tutti cosí.