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236 | vi - commento alla «chioma di berenice» |
dalla fatica, e quindi dallo studio di quella lingua e dall’amore del bello. Violando i testi per accumulare alla fine del libro tutti i tratti men verecondi, corrompono maggiormente la gioventú, perché le preparano uniti quei versi; mentre, per leggerli separati. avrebbe almeno dovuto scorrere tutto il libro. Ed il pessimo di costoro toccò a quel grande,
poeta e duca di color che sanno[1].
V. Non molto dopo, pubblicando Giovannantonio Volpi, ancor giovinetto, le sue postille sopra i tre poeti[2] osservò anche il nostro poemetto, lasciando a divedere ch’ella non era soma dalle sue spalle. Di che vergognando, stampò ventisette anni dopo quel suo commentario «copiosissimo»[3], di cui tanto concetto corre per l’Italia, e tanto ne deve pur correre: poiché lo studio de’ classici è confinato ne’ seminari, e i libri, anziché alla dottrina, servono alla pompa delle biblioteche. Non ha nuova lezione il Volpi, né arcana dottrina che non sia tutta del Vossio; né le virtú sole, ma i vizi adotta del precettore. Lussureggia la mole del suo commento di citazioni importune, che prendono occasione non dalle viscere del soggetto, ma da nude parole. Piú pregio e men grido ha la sua esposizione alla satira decima di Giovenale. Se non che usando il Volpi di nitida latinitá, toglie il lettore dalla noia, a cui per amore degli antichi soggiace, leggendo i commenti oltramontani.
L’anno dopo, uscí un’edizione di Catullo, predicata «principe»[4], perché si pretendea tratta da un codice allora trovato in Roma. Non mi è toccato di vedere l’edizione originale, né posso giudicare dell’esposizione. Ma ne possedo il testo di una elegante edizione schietta di note[5], ove lo stampatore professa di seguire religiosamente la lezione del Corradino. Vedrai dalle varianti che