Pagina:Foscolo - Poesie,1856.djvu/21

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Reggia lo vidi agonizzar: qui ’l nome

Proferì di Tïeste, e i neri inganni
Svelò d’Atreo. – Son io men rea? Ti fui,
Padre, causa di mali, ed io fui mezzo
D’iniquità: scritta è vendetta in cielo;
E il Ciel sazio non fia, s’io pria non pero.
Ippodamia. Qual da’ tuoi detti feroce traluce
Disperazion? Tal non ti vidi io mai.
Misera! e qual colpa n’hai tu? Rapita
Del tuo Tïeste dalle braccia, e indotta
Dall’irritata ambizïon del padre
A’ voleri d’Atreo, non soffocasti
Sin da quel giorno astretta a dover sacro
Tue prime fiamme?
Erope. Ahi! di lusinga questi,
Di pietà troppa accenti son. Non vedi
A te dinanzi di Tïeste un figlio,
Figlio di me, sposa ad Atreo? – Me lassa! –
È ver, dal dì che Atreo ruppe que’ nodi,
Ond’ei mi strinse con Tïeste, e truce
All’amor mio rapimmi, e l’infelice
Fratel dannò ’n Micene, onde träesse
Oscuri giorni abbandonato e solo,
È ver, di morte affanni, iniqui e incerti
Serrai contrasti nel mio sen: ma tutta
Ubbidïenza al sire, amore, e fede
Apparire tentai. – Che pro? più ardea
Di me Tïeste: di Micene sua
Tu il sai, lasciò l’esiglio: ansio, furente
Un giorno, innanzi ch’io giurassi all’ara
Qui...
Ippodamia. Istoria triste a che rinnovi? Solo
Quell’istante per lui, per te fatale
Per sempre ci fu: dalla gelosa possa
Del re fugato, d’ogni bene in bando
Vive. Fu il reo Tïeste; e pena ahi! troppa
Sottentrò al suo delitto.
Erope. Al suo!