Pagina:Foscolo - Poesie,1856.djvu/25

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Erope. E quai pensieri,

Tranne quei di vendetta? Io non mi lagno
Di sue rampogne; giuste son, le fuggo,
Ed a tacite lagrime le sconto.
Ma a che di questo misero, di questo
Innocente fanciul, figlio, che un giorno
Odierà i suoi natali, i giorni in fosca
Prigion rinserra? A che mai farne? Il credi:
Ippodamìa, fuor che di sangue, Atreo
Altro non ha pensier.
Ippodamia. Madre gli sono,
Nè vuoi ch’io lo conosca? A fondo io leggo,
Erope, nel suo cor. T’accerta, ad altro,
Che a nuovi eccessi, ci pensa. Il pargoletto
Troppo rileva custodire: ei l’ama,
Chè di Pelope in lui pur scorre il sangue.
Discaccia alfine i tuoi sospetti, e, il credi:
Pur ei saggio previde. In Argo è sparsa
Fama, che di Tïeste...
Erope. E dove mai
Non s’udì il mio delitto?
Ippodamia. Or statti, e m’odi.
Temer del vulgo i detti a un re conviensi,
E cercar di sopirli. Egli l’oggetto
Al vulgo cela, onde copra silenzio
Lo scorno de’ Pelopidi, ed il tempo
Ogni memoria ne cancelli. Intanto
Questo fanciullo al carcere si renda,
Onde d’Atreo l’ancor piaga stillante
Non s’inacerbi, e non inferocisca
Contro Tïeste, e contro noi.
Erope. Ben parli.
Ma tu, qual io, sei madre?
Ippodamia. Oh che di’ mai?
Non son io madre? e madre sommi, e sono
Preda anch’io di sventura: io vissi, e, lassa!
Ahi! troppo vissi, se veder dovea
Morti nefande, ed odj ed ire e guerre