Pagina:Foscolo - Poesie,1856.djvu/268

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250 le grazie

Spettri di cavalieri ivan col Mago
Aspettando il Cantor, che poi, trovati
Deposti i favi, si mietea con essi
545Tutti gli allori. Se non che d’Orlando
Cantò pur anco un lepido Poeta,1
E al suo labbro involò parte de’ favi.
     Ma non men cara l’Api amano l’ombra
Dell’eterno cipresso, ove appendea
550La sua cetra Torquato,2 allor che Amore,
Signor severo all’anime sublimi,
Forsennato il traea per le foreste,
«Sì che insieme movea pietade e riso
Nelle gentili ninfe e ne’ pastori;
555Nè già cose scrivea degne di riso.»3
Pianse il Poeta all’altrui pianto, e allora
I suoi mali obliò. Deh! perchè il piede
Torse, o Grazie, da voi liete in udirlo?
Cantò alla Patria il pio sepolcro e l’armi;
560Cantò d’Erminia; e in sè trovò e dipinse
Di Tancredi l’altera alma gentile:
Nė disdegnò di voi; ma più fatale
Nume alla reggia il risospinse e al pianto.
     Cotal ventura prescrivea la Fata
565A quante all’Adria riposaro il volo
Angelette pimplee. L’altro drappello

    furioso di Lodovico Ariosto, il quale recò all’ultima perfezione il Poema romanzesco, e, proseguendo la tela avviata dal Boiardo, si assise fra le prime fantasie del mondo. L’Ariosto nacque in Reggio; scrisse in Ferrara, ed ivi morì nel 1533. (Ginguené, Stor. ec.)

  1. 546-47. Francesco Berni da Bibbiena in Casentino rifece l’Orlando innamorato del Boiardo, adornandolo di originalissime lepidezze, e d’infinite grazie di lingua e di stile, invidiabili dallo stesso Ariosto. Morì, verso il 1536, avvelenato per ordine di Alessandro de’ Medici, tiranno della repubblica fiorentina, per aver rifiutato di commettere un eguale delitto contro il cardinale Ippolito cugino di lui. (Ginguené, Stor. ec.)
  2. 549. Allude ai pietosissimi versi con cui il Cantore della Gerusalemme chiude un sonetto allo Stigliani, col quale lo eccita a salire sull’aspro Elicona
    «Ivi pende mia cetra ad un cipresso:
    Salutala in mio nome, e dalle avviso
    Ch’io son dagli anni e da Fortuna oppresso.»
  3. 553-55. Questi versi son tolti dall’Aminta di Torquato Tasso; versi profetici con cui quel divino vaticinava in parte le solenni sventure che poi lo travagliarono. E di esse sventure sarebbe stato degno narratore il nostro Poeta in un Racconto storico che egli aveva immaginato, ed anco adombrato in parte, se egualmente dulorose, ancorchè più nobili vicende, non ne avessero agitato perpetuamente la vita.