Pagina:Foscolo - Poesie,1856.djvu/42

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A liberarti io venni; e i numi io chiamo

(Se in questa reggia di delitti i numi
Presiedono tuttor) che avrei sofferto
Mie pene, sol certo foss’io che vivi
In pace almeno.
Erope. In pace!... Or tu tel vedi.
Ma se a peggior non mi desii, mi lascia;
Me lascia in preda al mio dolor; me al giusto
Sdegno d’Atreo; me di me stessa all’odio;
Me alla difesa di quel figlio...
Tieste. Figlio!
Come? figlio! di chi?
Erope. Tuo figlio e mio.
Tieste. Numi!
Erope. Non ti stupir. Dall’atra notte
Di sventurato amor, poichè fuggisti
Dalla possa d’Atreo, grav’ebbi il fianco
D’un frutto più infelice: ei nacque, e cadde
In man del re, senza che il latte possa
Succhiar bambin d’un’odïata madre.
Tieste. Ed il feroce Atreo?
Ippodamia. Sì; ei veglia ancora
Su lui; ma che perciò? Cagion non avvi
Poi di temer.
Erope. Ippodamìa, scordasti
Quel momento terribile, che vide
Il figlio pargoletto? Ei fra le braccia
Forte serrollo: ei gridò sì, che ancora
Nell’alma mi ripiomba il truce grido.
Te, sì te sol testimone esecrando
«Dell’onte mie vedrò compiere un giorno»
«Le mie vendette.»
Ippodamia. Alta minaccia in fatto!
Ma riguardar conviensi anco suo tempo.
Che vorrestù? Che egual smania e livore
L’occupi da quel dì! Quattr’anni, o figlia,
Quant’han possanza in uom!
Tieste. Troppo t’avvolge