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marciando a dovere santo — a liberazioni di schiavi — che non soffrirebbero in quella pesante notte i rinchiusi nell’afa micidiale di un carcere?

In Palermo certo i dormenti eran pochi. E i detenuti? — molti! Gl’infelici precipitati nel fondo delle loro bolgie — senza colpe — e sostenuti solo dall’intemerata coscienza, languivano privi d’alimenti e d’un soffio d’aria libera!

Tiranni! a che tanto chiasso coi vostri cagnotti, se lo schiavo — raramente, ma però qualche volta — dopo di aver tastato i solchi troppo profondi che incisero i vostri ferri nelle sue carni, vi scaraventa sopra un palco che si chiama guigliottina o nei fossi delle casematte di Queritaro? Voi!... che tanto faceste e fate soffrire l’umana famiglia di umiliazioni, di torture e d’omicidii!

Ed eran rinchiusi nelle celle della tirannide le nostre eroine, che lasciammo nelle mani della polizia all’Albergo d’Italia. — Rinchiuse nelle carceri più recondite dell’ergastolo di Castellamare — esse morivano di quella morte lenta, lenta, che appassisce, appassisce sino ad inaridire e troncare l’esistenza più florida e più robusta.

Esse furono prive del consorzio e divise ciascuna nella sua cella. Gl’interrogatorî di queste famose delinquenti dovevano essere presi a parte. Il despotismo nulla ignora di questa morte morale delle anime: l’isolamento e le torture dello spirito.

Il selvaggio cavallo delle Pampas, i suoi primi