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taglia, ed in alto per poterlo vedere. I generali borbonici invece, situati nella pianura, poco o nulla potevano scoprire.

Certo della vittoria, discesi dal monte nel villaggio, e mi ricordai allora — già di notte — di non aver preso alimento nella giornata. Qualcuno, mi disse essere i carabinieri genovesi dal parroco. Ciò mi sollevò il cuore, certo di non morire di fame in tale casa, ed in compagnia di quei miei prodi fratelli d’armi. E non m’ingannai: basta dire che, non solo squisiti manicaretti mi presentarono, quei miei incomparabili, ma persino il caffè.

Siccome, però, la felicità è un fantasma sulla terra, e che pare stanziare solo nell’immaginazione umana, subito dopo il caffè, invece di potermi sdraiare un’ora, e riposare le mie stanche membra, un messo mi rimise un dispaccio da Caserta, in cui mi si diceva: «Caserta, seriamente minacciata da un considerevole corpo nemico, scendendo per Caserta Vecchia» .

Addio riposo. E non v’era tempo da perdere. Ordinai al maggiore Mosto, di far preparare i suoi carabinieri genovesi; si diedero alcune altre disposizioni, e con alcune centinaia d’uomini mi avviai, verso la metà della notte, alla volta di Caserta.

Giunto presso Caserta all’alba, inviai il colonnello Missori, con alcune delle sue guide a cavallo, ad esplorare il nemico: ciocchè egli eseguì da quel prode cavaliere che si conosce; ed io mi recai in