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capitolo lxiii 395


glia umana: — Roma! ch’io visitai imberbe, per mia ventura, e ch’io salutai per la prima volta con affetto d’amante: — Roma! alle cui ispirazioni certamente, io devo il poco operato nella tempestosa mia vita; Roma, infine, il cuore dell’Italia, l’ideale dell’Italia! e che per essere la più preziosa delle sue gemme, fu sì accanitamente conculcata, percossa, oltraggiata da tutte le tirannidi, da tutte le imposture, che, per meglio corromperla, trasformarla, contaminarla, vi posero il loro seggio di serpe! E fecero del più grande dei popoli il più infimo! Roma! per cui questo corpo, oggi cadente, fu forato tre volte. E quando sul Gianicolo fui ferito in un fianco, alla sua difesa, io esultai con me stesso al pensiero di morire su d’un colle sì glorioso e per la santa causa della repubblica.

Era un bel giorno (così il sogno); dall’alto del Campidoglio io assisteva al sorgere del figlio maggiore dell’Infinito1 che spuntava dalle cime dell’Apennino.

  1. Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si scrivono numerosi fascicoli per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri, e che finiscono per provare e per negare nulla; io credo sarebbe conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed affratellare tutti. (Col dottrinarismo intolleraute per il mezzo, certo sarà un affare un po’ serio).
     Per parte mia accenno e non insegno.
     Può il Vero, o l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo credo.
     V’è il tempo infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza, quindi incontestabile.