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GAZZETTA MUSICALE | ||
N. 29 |
DOMENICA |
DI MILANO |
J. J. Rousseau.
STUDJ BIOGRAFICI.
BIOVAKAT PAISIEllO
Continuazione. Uedi i fogli 24, 25.
j’el 4799 le armi della repubblica
’francese avean posta sossopra
jgl’Italia. «Il trono di Napoli, cosi
si esprime nella già lodata biogr£,fia
d’Paisiello il sig. conte
Folcili no Schizzi, era fortemente minacciato.
I repubblicani, entrati trionfanti in Roma
sotto gli ordini di Championnet s’avviavano
alla volta del regno per conquistarlo. «I reali,
per fuggire al nembo che minacciava la capitale,
ritiravansi in Sicilia, e intanto il Governo
assumeva forma repubblicana. Sgomentato
dalla perdita de’ suoi impieghi, e inquieto
sul suo avvenire, Paisiello, che durante
la guerra non erasi mai allontanato da Napoli,
non si addimostrò ritroso ad adottare
ì principii del novello reggimento politico,
e ottenne per naturai conseguenza il titolo
e gli emolumenti di direttore della Musica
nazionale. Ma indi a non molto, reintegrata
la monarchia de’Borboni, l’insigne
compositore perdette la grazia de’suoi principi
e con essa il titolo di maestro di
cappella della Corte e gli assegni relativi.
Del che fu moltissimo afflitto Paisiello, e
non pretermise supplicazioni ed atti di
pentimento, o veri o simulati, onde ricuperare
i perduti favori. Due anni furono
per lui spesi in questo doloroso ufficio, in
capo ai quali vide soddisfatti i suoi fervidi
voti. Se non che poco tempo dopo,
Bonaparte, già fattosi primo Console, otteneva
dalla Corte di Napoli che Paisiello, pel
quale egli nudriva una speciale predilezione,
si recasse a Parigi ad ordinare e a
dirigere la Cappella Consolare, e il celebre
artista tutto lieto abbandonava la
patria e il munifico monarca italiano nel
cui orecchio suonavano ancora le calde
sue proteste di inalterabile ed eterna devozione,
e trasferi vasi al novello suo posto
sul finire del 1802.
Con isplendida generosità venne trattato
Paisiello da Bonaparte, perocché, oltre
un’ingente somma fattagli sborsare per le
spese del viaggio, ebbe un alloggio sontuoso,
una carrozza di Corte a’suoi ordini,
42 mila franchi di onorario, ed un’annua
gratificazione di altri 48 mila franchi. Se
non vedessimo confermato da altri biografi
questo ultimo computo del sig. Fétis, saremmo
tentali a crederlo esagerato, e tanto
maggiormente dacché il sig. conte F. Schizzi
accenna che oltre i 42 mila franchi di
stipendio, soli 4200 gliene vennero sborsati
per le spese del viaggio e dell’alloggio, la
quale somma ne sembra troppo meschina,
come di soverchio ingente ne parve quell’altra.
Ma sia comunque il fatto, certa cosa è
però che i grandi compositori francesi che
a quel tempo trovavansi a Parigi molta
gelosia e non minore invidia ebbero a provare
del fortunato maestro italiano, al
quale per avventura non attribuivano tutto
il merito di cui poteva a buon dritto vantarsi.
E per conseguenza ecco risvegliarsi
una segreta nimistà tra i partigiani di
Paisiello e i professori del Conservatorio
parigino. Questi, non senza dispetto acerbissimo,
vedevano apprezzarsi sopra modo
nello stile e nelle ispirazioni dell’autore
della Sina quei rari pregi di spontaneità,
di grazia e di facile e abbondevole melodia
di che troppo eran poveri i prodotti delle
loro fantasie più tendenti al genere di
musica drammatico-pittoresco che il proprio
vanto principale ripone nel colpire
la mente e lo spirito dell’uditore, anziché
lusingare l’orecchio e svegliare dolci impressioni
e sentimenti affettuosi. Però, mentre
nel conflitto degli astii di parte, Paisiello
e i seguaci delia scuola italiana da un
lato, Mehul, Cherubini ed altri sostenitori
della francese dall’altro, addimostravansi
poco penetrati della dignità del loro carattere
cl’artista e scendevano a guerricciuole
meschine, l’arte guadagnava grandemente
per gli sforzi di una calda emulazione, e
lentamente progrediva la salutare fusione
dei due generi opposti, già cominciata ai
tempi di Gluck e di Piccini; il genio musicale
italiano rappresentato in Francia dalle
sublimi creazioni di Paisiello influiva sullo
spirito dei compositori antagonisti di questo
grande maestro, e quasi loro malgrado li
costringeva a riconoscere la superiorità
delle doti per le quali la sua musica sì
facilmente destava all’entusiasmo la moltitudine
e otteneva quella popolarità alia quale
l’artista d’ingegno superiore solo allora deve
rinunziare quando è comperata a prezzo
della volgarità delle idee, dell1 abuso dei
falsi mezzi d’effetto, della stravaganza delle
ispirazioni che male si vogliono battezzare
di originalità, e di tutta quella peste degli
artifizi di convenzione e di mestiere che
alla severa filosofia dell’arte sostituiscono le
Grossolane risorse del meccanismo. A coesto
punto di scadimento vorrebbero pur
troppo addurre la composizione melodrammatica
non pochi de’moderni nostri maestri,
ma per buona ventura della scuola
italiana, al tempo che Paisiello la rappresentava
in Francia ella era ancora lontana
da un cosi infelice periodo; e pertanto
grandissima ed ottima influenza esercitò
sul gusto musicale de’ Francesi e presso
di essi addusse al maggior punto il favore
per la nostra Opera e preparò le invidiabili
glorie di Rossini.
Vorremmo occuparci a sviluppare mollo
più partitamente il punto di critica storica
musicale ora solamente di volo accennato,
ove 1 ufficio che ci siamo proposti in questo
scritto non fosse molto più modesto.
Proseguiamo quindi nella nostra narrazione
biografica.
Al tempo in cui Paisiello fu chiamato a
Parigi da Bonaparte, veruna musica esisteva
appositamente scritta per la Cappella consolare, e Paisiello si propose di fòrnirnela
da par suo e compose quindi sedici
offici completi, messe, mottetti, e antifone.
Intanto l’Austria e l’Inghilterra concliiudevano
colla Francia, la prima il trattato
di pace di Luneville, l’altra quello d’Amiens;
e Paisiello, se dobbiamo credere a qualche
biografo italiano, ebbe a ricevere l’incarico di
celebrare tanta ventura con un’apposita cantata,
della quale l’autore della grande Biografia
dei Musicanti non fa cenno.
Ricorda egli bensì una Messa ed un Te
Deum scritti a due cori e a due orchestre
per solennizzare l’incoronazione di Napoleone.
Già l’anno innanzi aveva dato Paisiello
alle scene la Proserpina, infelicemente
riuscita, e per conseguenza si temeva
che il sacro rito e l’Inno di esultanza non
potessero essere da lui musicati colla superiorità
di ingegno che in altra solenne occasione
aveva saputo manifestare, e qual
si richiedeva dalla memoranda circostanza.
Ma il fatto sciolse i dubbi contrari, così
almeno dobbiamo affermare volendo attenerci
alle parole del sig. conte Folchino
Schizzi, il quale scrive: «la Messa fu un
capolavoro che la più severa critica non
avrebbe saputo menomamente attaccare».
Il sig. Fétis, all’incontro, ne assicura che
giunto all’età di sessantadue anni, a quel periodo
cioè dell’umana vita in cui l’immaginazione,
venuta la prima, è pur la prima a voltarci
le spalle, l’autore della Nino, comprese
a qual partito era in lui prudenza appigliarsi
per il meglio della sua gloria. Deciso
a più non correre le incerte sorti delle
scene, o fors’aneo piccato di non avere colla
sua presenza destato in Parigi quel clamore
al quale nella non discreta sua ambizione
erasi preparato, addusse a pretesto la poca
salute di sua moglie per chiedere la sua
dimissione, che non senza difficoltagli venne
accordata. Sotto questo poco lusinghevole