Pagina:Gazzetta Musicale di Milano, 1842.djvu/139

Da Wikisource.

- 129 -

GAZZETTA MUSICALE

N. 29

DOMENICA
17 Luglio 1842.

DI MILANO
Si pubblica ogni domenica. — Nel corso dell’anno si danno ai signori Associati dodici pezzi di scelta musica classica antica e moderna, destinati a comporre un volume in 4.° di centocinquanta pagine circa, il quale in apposito elegante frontespizio figurato si intitolerà Antologia classica musicale.
La musique, par des inflexions vives, accentuées. et. pour ainsi dire. parlantes, exprimè toutes les passions, peint tous les tableaux, rend tous les objets, soumet la nature entière à ses savantes imitations, et porte ainsi jusqu’au coeur de l’homme des sentiments propres à l’émouvoir.

J. J. Rousseau.

Il prezzo dell’associazione annua alla Gazzetta e all’Antologia classica musicale è di Aust. lire. 24 anticipate. Pel semestre e pel trimestre in proporzione. L’affrancazione postale della sola Gazzetta per l’interno della Monarchia e per l’estero fino a confini è stabilita ad annue lire 4. — La spedizione dei pezzi di musica viene fatta mensilmente e franca di porto ai diversi corrispondenti dello Studio Ricordi, nel modo indicato nel Manifesto — Le associazioni si ricevono in Milano presso l’Ufficio della Gazzetta in casa Ricordi, contrada degli Omenoni N.° 1720; all’estero presso i principali negozianti di musica e presso gli Uffici postali. Le lettere, i gruppi, ec. vorranno essere mandati franchi di porto.


STUDJ BIOGRAFICI. BIOVAKAT PAISIEllO Continuazione. Uedi i fogli 24, 25. j’el 4799 le armi della repubblica ’francese avean posta sossopra jgl’Italia. «Il trono di Napoli, cosi si esprime nella già lodata biogr£,fia d’Paisiello il sig. conte Folcili no Schizzi, era fortemente minacciato. I repubblicani, entrati trionfanti in Roma sotto gli ordini di Championnet s’avviavano alla volta del regno per conquistarlo. «I reali, per fuggire al nembo che minacciava la capitale, ritiravansi in Sicilia, e intanto il Governo assumeva forma repubblicana. Sgomentato dalla perdita de’ suoi impieghi, e inquieto sul suo avvenire, Paisiello, che durante la guerra non erasi mai allontanato da Napoli, non si addimostrò ritroso ad adottare ì principii del novello reggimento politico, e ottenne per naturai conseguenza il titolo e gli emolumenti di direttore della Musica nazionale. Ma indi a non molto, reintegrata la monarchia de’Borboni, l’insigne compositore perdette la grazia de’suoi principi e con essa il titolo di maestro di cappella della Corte e gli assegni relativi. Del che fu moltissimo afflitto Paisiello, e non pretermise supplicazioni ed atti di pentimento, o veri o simulati, onde ricuperare i perduti favori. Due anni furono per lui spesi in questo doloroso ufficio, in capo ai quali vide soddisfatti i suoi fervidi voti. Se non che poco tempo dopo, Bonaparte, già fattosi primo Console, otteneva dalla Corte di Napoli che Paisiello, pel quale egli nudriva una speciale predilezione, si recasse a Parigi ad ordinare e a dirigere la Cappella Consolare, e il celebre artista tutto lieto abbandonava la patria e il munifico monarca italiano nel cui orecchio suonavano ancora le calde sue proteste di inalterabile ed eterna devozione, e trasferi vasi al novello suo posto sul finire del 1802. Con isplendida generosità venne trattato Paisiello da Bonaparte, perocché, oltre un’ingente somma fattagli sborsare per le spese del viaggio, ebbe un alloggio sontuoso, una carrozza di Corte a’suoi ordini, 42 mila franchi di onorario, ed un’annua gratificazione di altri 48 mila franchi. Se non vedessimo confermato da altri biografi questo ultimo computo del sig. Fétis, saremmo tentali a crederlo esagerato, e tanto maggiormente dacché il sig. conte F. Schizzi accenna che oltre i 42 mila franchi di stipendio, soli 4200 gliene vennero sborsati per le spese del viaggio e dell’alloggio, la quale somma ne sembra troppo meschina, come di soverchio ingente ne parve quell’altra. Ma sia comunque il fatto, certa cosa è però che i grandi compositori francesi che a quel tempo trovavansi a Parigi molta gelosia e non minore invidia ebbero a provare del fortunato maestro italiano, al quale per avventura non attribuivano tutto il merito di cui poteva a buon dritto vantarsi. E per conseguenza ecco risvegliarsi una segreta nimistà tra i partigiani di Paisiello e i professori del Conservatorio parigino. Questi, non senza dispetto acerbissimo, vedevano apprezzarsi sopra modo nello stile e nelle ispirazioni dell’autore della Sina quei rari pregi di spontaneità, di grazia e di facile e abbondevole melodia di che troppo eran poveri i prodotti delle loro fantasie più tendenti al genere di musica drammatico-pittoresco che il proprio vanto principale ripone nel colpire la mente e lo spirito dell’uditore, anziché lusingare l’orecchio e svegliare dolci impressioni e sentimenti affettuosi. Però, mentre nel conflitto degli astii di parte, Paisiello e i seguaci delia scuola italiana da un lato, Mehul, Cherubini ed altri sostenitori della francese dall’altro, addimostravansi poco penetrati della dignità del loro carattere cl’artista e scendevano a guerricciuole meschine, l’arte guadagnava grandemente per gli sforzi di una calda emulazione, e lentamente progrediva la salutare fusione dei due generi opposti, già cominciata ai tempi di Gluck e di Piccini; il genio musicale italiano rappresentato in Francia dalle sublimi creazioni di Paisiello influiva sullo spirito dei compositori antagonisti di questo grande maestro, e quasi loro malgrado li costringeva a riconoscere la superiorità delle doti per le quali la sua musica sì facilmente destava all’entusiasmo la moltitudine e otteneva quella popolarità alia quale l’artista d’ingegno superiore solo allora deve rinunziare quando è comperata a prezzo della volgarità delle idee, dell1 abuso dei falsi mezzi d’effetto, della stravaganza delle ispirazioni che male si vogliono battezzare di originalità, e di tutta quella peste degli artifizi di convenzione e di mestiere che alla severa filosofia dell’arte sostituiscono le Grossolane risorse del meccanismo. A coesto punto di scadimento vorrebbero pur troppo addurre la composizione melodrammatica non pochi de’moderni nostri maestri, ma per buona ventura della scuola italiana, al tempo che Paisiello la rappresentava in Francia ella era ancora lontana da un cosi infelice periodo; e pertanto grandissima ed ottima influenza esercitò sul gusto musicale de’ Francesi e presso di essi addusse al maggior punto il favore per la nostra Opera e preparò le invidiabili glorie di Rossini. Vorremmo occuparci a sviluppare mollo più partitamente il punto di critica storica musicale ora solamente di volo accennato, ove 1 ufficio che ci siamo proposti in questo scritto non fosse molto più modesto. Proseguiamo quindi nella nostra narrazione biografica. Al tempo in cui Paisiello fu chiamato a Parigi da Bonaparte, veruna musica esisteva appositamente scritta per la Cappella consolare, e Paisiello si propose di fòrnirnela da par suo e compose quindi sedici offici completi, messe, mottetti, e antifone. Intanto l’Austria e l’Inghilterra concliiudevano colla Francia, la prima il trattato di pace di Luneville, l’altra quello d’Amiens; e Paisiello, se dobbiamo credere a qualche biografo italiano, ebbe a ricevere l’incarico di celebrare tanta ventura con un’apposita cantata, della quale l’autore della grande Biografia dei Musicanti non fa cenno. Ricorda egli bensì una Messa ed un Te Deum scritti a due cori e a due orchestre per solennizzare l’incoronazione di Napoleone. Già l’anno innanzi aveva dato Paisiello alle scene la Proserpina, infelicemente riuscita, e per conseguenza si temeva che il sacro rito e l’Inno di esultanza non potessero essere da lui musicati colla superiorità di ingegno che in altra solenne occasione aveva saputo manifestare, e qual si richiedeva dalla memoranda circostanza. Ma il fatto sciolse i dubbi contrari, così almeno dobbiamo affermare volendo attenerci alle parole del sig. conte Folchino Schizzi, il quale scrive: «la Messa fu un capolavoro che la più severa critica non avrebbe saputo menomamente attaccare». Il sig. Fétis, all’incontro, ne assicura che giunto all’età di sessantadue anni, a quel periodo cioè dell’umana vita in cui l’immaginazione, venuta la prima, è pur la prima a voltarci le spalle, l’autore della Nino, comprese a qual partito era in lui prudenza appigliarsi per il meglio della sua gloria. Deciso a più non correre le incerte sorti delle scene, o fors’aneo piccato di non avere colla sua presenza destato in Parigi quel clamore al quale nella non discreta sua ambizione erasi preparato, addusse a pretesto la poca salute di sua moglie per chiedere la sua dimissione, che non senza difficoltagli venne accordata. Sotto questo poco lusinghevole