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GAZZETTA MUSI Venezia, 11 aprile. Il primo aprile corrente la Società proprietaria del Teatro la Fenice, in seguito alla deliberazione del Comune, die le respingeva la domanda di sussidio, tenne una adunanza nella quale si decise che il teatro nella prossima stagione di CarnovaleQuaresima abbia a rimaner chiuso, Torna inutile il dire quanto sia improvvida tale determinazione: ne sono cosi manifeste le ragioni che la mente corre spontanea e confidente all’idea d’una possibile seduta, per dir cosi, di riparazione, dove si distruggesse non dirò il mal fatto, ma una deliberazione troppo precipitata. Misura provvida e santa sarebbe stata, se la Società proprietaria avesse detto: farò da me sola quanto potrò invigilando su questo e su quello, cercando dovunque la maggiori economie, ricorrendo al consiglio disinteressato e gentile di qualche persona, che ha consumata vita e buona parte di fortuna in cose teatrali: ma non voglio che il teatro rimanga chiuso, come fu, con nobilissimo intendimento, però, in epoca tanto a noi vicina e pur tanto nefasta. Ciò facendo, la Società della Fenice avrebbe dato al paese luminosissima prova delle sue buone disposizioni, ed avrebbe avuto l’appoggio di tutti. Se ella credesse di far diversamente, e non fosse disposta a recedere, ne fu e ne sarebbe padrona; ma almeno tragga partito dal tempo introducendo nell’organamento morale e materiale del suo teatro, tutte quelle modificazioni che sono cotanto vivamente reclamate, e delle quali si è occupata spessissimo la stampa non allo scopo di mettere il naso in casa d’altri, come taluno, con mal celato dispetto, va strombazzando, ma nell’intendimento di concorrere alle migliorie col contingente delle proprie forze, di dare il miglior possibile indirizzo al sentimento aristocratico del paese. In ogni caso i proprietarii dei teatri minori faranno bene ad apparecchiarsi per procurare al paese nella prossima stagione di Carnevale e Quaresima degli spettacoli soddisfacenti particolarmente sotto il punto di vista musicale. Al Rossini abbiamo da parecchie sere il Don Procopio. La musica di questo spartito piace generalmente per quella tinta spigliata, briosa e simpatica che costantemente vi si mantiene; ma l’esecuzione, se togli la signora E. Bozzetti (Bettina) e Torelli A. (Ernesto), è mediocrissima. Il Silvestri A. (Don Andronico) stona maledettamente, il Bonafos (Don Procopio) fa quanto può, ma il male si è che non può far molto. La Volebele (Donna (Eufemia) ed il Badalucchi (Odoardo) lasciamoli stare e sarà meglio. Nella settimana andrà in scena il Birraio di Preslon del Ricci. Domenica ultima scorsa si chiuse T esposizione iniziata dal Comitato Cittadino d’Arte e Beneficenza in palazzo Rezzonico con una mattinata drammatico-musicale. Si recitava la commedia in un atto del Chiaves, in versi martelliani, Il terzo qual è? Dove emersero, per quanto si può in una sala, le signore Falcóni e L. Tessero ed i signori Pasta e Salvadori. Anche il Bellotti volle fare qualche cosa e difatti declamò un piccolo prologo di circostanza. La parte musicale tenne assai attento l’uditorio. Trattavasi di udire la magnifica fantasia militare del Fumagalli, per quattro pianoforti suonata da quattro fra i migliori nostri pianisti: accolti da vivissimi applausi al loro presentarsi (perchè tutti si prestavano gentilmente) furono festeggiatissimi in tutto il corso del concerto che fu per loro una continua marcia trionfale. Si ottenne il bis del terzo pezzo fratto dalla Norma). I nomi dei pianisti vi sieno caparra della buona esecuzione che si ebbe quel lavoro magistrale, essi sono: Ugo Bassani, Ugo Errera, Angelo Tessarin, Edoardo Zandiri. Non si potrebbe dire quale delle quattro parti, che sono pur tutte d’una importanza quasi eguale, abbia avuto il più abile esecutore: fu una lotta gigantesca, una nobilissima gara in prò dell’arte: vi si sentiva un impasto, una fusione veramente mirabili. Dove superarono però, a mio- avviso, sè stessi fu alla marcia funebre che è il pezzo più felice della composizione. CALE DI MILANO 125 Al Malibran si fa un continuo baccano in onore e gloria di un certo Sipelli, coreografo e straccivendolo: c’è da scompisciar dalle risa vedendo i suoi balli. Per celia lo chiamano alla ribalta, ed egli pettoruto e caracollante viene a ringraziare; gli gettano corone di lattuga ed altre allegrie, ed egli se le raccoglie come fossero d’alloro; vi dico che è qualche cosa di singolare. Il Bellotti all’Apollo recita con buona fortuna ma... la compagnia vecchia, presa nel suo complesso, era più intonata, più armonizzata, insomma migliore della nuova. P- F S’ai-ig’i, 10 aprile. E raro aver la buona fortuna di poter parlarvi di qualche cosa di nuovo, ed anche più raro quando il nuovo è gradevole. Oggi sono in questo caso e ne profitto con piacere. Iersera ha avuto luogo al teatro dei Bouffes Parisiens, illustrato da Offenbach, la prima rappresentazione una nuova opera intitolata il Nappo d’argento (la timbale d’argent ), e la musica non è dell’autore della Gran duchessa, della bella Elena, d’Orfeo all’inferno, ecc., ecc.; non è neppur d’Hervé o di Lecoq, che seguono cosi da vicino le orme del loro caposcuola Offenbach; è d’un giovine maestro che ha guadagnato ieri i suoi speroni d’oro, e che il di innanzi era ancora uno sconosciuto. Il suo nome è Vasseur, allievo di Niedermayer, ed il Nappo d’argento è il suo primo lavoro scenico. L’opera è in tre atti, ed ha ottenuto un successo brillantissimo. Cinque o sei pezzi hanno avuto l’onore del bis, il che non è poco dire! La musica è quel che deve essere per un’opera buffa; vale a dire gaia senza trivialità, facile, originale ed assai bene istrumentata. Vi son, in ispecie, due canzoni, quella detta dell’acero di cuccagna, e l’altra della frusta, che saranno ben presto popolari. Ma sono maliziose oltre ogni dire. Il doppio senso vi arrischia tutte le sue audacie. Le innocentino non vi veggono alcun male, perchè non comprendono che il senso apparente; ma le altre!... Ah! non c’è a dire; le altre divengono rosse come brace, ed agitano i loro ventagli per darsi un contegno a nascondere il viso. Nell’esaminar il libretto, la censura non vi ha veduto la malizia; ma quando l’artista madamigella Judic ha cantato T una e l’altra di queste due canzoni, e che ne ha per così dire sottolineato le parole, facendone trasparentissima l’allusione, è stato un lungo scroscio di risa in tutto l’uditorio, uno scoppio di plausi alla fine d’ogni strofa ed un grido unanime di bis all’ultima di esse. Nè son solamente queste due canzoni che si prestano alla doppia interpretazione; tutta l’opera è dello stesso genere. Alcune delle poesie festevoli del Guadagnoli sono di questa natura; leggetele ad una fanciulla; non vi vedrà che quel che v’è scritto; una donna galante capirà ben altro! Checché ne sia, e quantunque i giornali più austeri grideranno, tutti si sono divertiti iersera alla prima rappresentazione del Nappo d’argento. E non credo ingannarmi, aggiungendo che tradotta quest’operetta piacerebbe anche costà, poiché, ripeto, è gaia, spiritosa, gradevole, e la musica è melodica, originale, piccante, e facile a ritenersi nella memoria. Il difficile è trovar delle cantanti che sieno nello stesso tempo valentissime attrici; una almeno indispensabile. Qui abbiamo la Judic, ma costa!... La scena ha luogo nel Tirolo svizzero, o piuttosto in un Tirolo tutto di fantasia. Due Cantoni immaginarii si disputano il premio del canto orfeonico, il qual premio è un nappo d’argento. L’uno dei due Cantoni risulta sempre vincitore, a dispetto dell’altro: perchè? perchè il primo ha uno statuto, in virtù del quale gli abitanti si obbligano a trattar le loro mogli come se fossero loro sorelle, sotto pena d’essere messi all’indice e di divenir l’obbrobrio del Cantone. Così soltanto,’ a loro avviso, possono serbare delle belle voci e risultar costantemente vincitori al concorso di canto. Un giovine avventuriero, con la chitarra al collo, arriva nel Cantone, ove non essendovi il famoso statuto, nessuno ha una voce fresca; la sua è bellissima; infatti