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GAZZETTA MUSICALE DI MILANO 169 Un del Cagnoni, opera non destituita di pregi quantunque molto inferiore al Michele Perrin dello stesso autore. Poi se volle impinguare la cassetta, gli fu mestieri ritornare alle bizzarrie per pianoforte ed alla Gigogin variata per violino. Il celebre buffo aveva con sè due artisti dei quali sarebbe ingiustizia tacere. La signorina Trebbi ed il tenore Gnone sono cantanti veramente di garbo per le opere di stile leggiero, e di rado udii il Bottero così bene accompagnato. L’impresario fece quattrini a iosa, e ciò basta a dimostrare che il pubblico romano appena gli si offre qualche spettacolo decente e tollerabile, vi accorre numeroso. E di queste buone disposizioni del nostro pubblico abbiamo più d’una prova ne’teatri di prosa, e segnatamente al Valle dove fece tanti guadagni la compagnia Marchi, Ciotti e Lavaggi, ed ha ora la fortuna non meno propizia la compagnia veneziana del Moro-Lin. Su questi fatti dovrebbe meditare il buon Jacovacci che sempre si lagna della sorte avversa. Può egli pretendere che il pubblico gli rimanga fedele, quando gli spettacoli da lui ammaniti non sono degni d’una capitale? Sapete qual è l’errore del signor Jacovacci? Quello di non persuadersi che mutate le condizioni politiche della città, è mutata anche la qualità del pubblico che interviene ai teatri. È verissimo che l’aristocrazia romana, da due anni, si astiene dai divertimenti, ma i palchi dell’Apollo e dell’Argentina non sono di proprietà, privata; l’impresario può venderli a chi gli pare e piace: invece del principe li può occupare il banchiere. Con la capitale del regno d’Italia son venute a Roma non meno di cinquanta mila persone; ammettiamo pure che i miseri travetti torturati e dissanguati dai proprietari di case abbiano ben altro in capo che di divertirsi; ma è possibile che in mezzo a tanto movimento di persone e d’affari, in una città visitata l’inverno da migliaia e migliaia di forestieri, non possa vivere, anche indipendentemente dall’aiuto della aristocrazia romana, un teatro di prim’ordine con circa duecento mila lire di dote e la libera disponibilità di tutti i palchi? Questa, l’amico Jacovacci, non la darà da bere nè a me nè ad alcun altro che non sia affatto ignaro di cose teatrali. Con la prossima stagione di autunno-carnevale-quaresima termina il contratto Jacovacci. Ignoro s’egli aspiri a rinnovarlo. Forse egli stesso è in una grande incertezza. Credo che parli sinceramente quando afferma che avrebbe sostenuto qualunque sacrifizio per mettere in scena Y Aida. Uno spartito ardentemente desiderato dal pubblico, ed eseguito in modo conveniente, avrebbe rialzato le sorti dell’impresario. Dio e la Casa Ricordi hanno disposto altrimenti, ed io non intendo di ritornare su questo spiacevole argomento. Perduta la speranza delYAida, il nostro impresario, se da un lato si trova imbarazzato a formare per T anno prossimo un repertorio soddisfacente, dall’altro si presenta al pubblico come una vittima che, per cagioni indipendenti dalla propria volontà, non può dare gli spettacoli che avrebbe avuto in animo d’allestire. Invece dell’AzW avremo probabilmente il Manfredo di Petrella, e si parla eziandio di qualche altra novità. Pel carnevale, ch’io mi sappia, non sono ancora scritturati che la Vizjak, il Gayarre ed il Collini. È compagnia che si possa dire all’altezza del primario teatro d’una capitale? Lascio a voi il giudicarlo. Intanto per la corrente primavera il signor Jacovacci ha ceduto TArgentina ad un impresario di Pisa e di Livorno, il quale ha qui trasportato gli spettacoli che aveva dati in quella città. Ha esordito coll’ureo d’Apolloni e col ballo Lo spirito maligno del Rota. Il miglior capo della compagnia nuova è il tenore Vanzan, il quale possiede una voce della forza di 500 cavalli ed urla come se avesse in corpo una legione di demoni. È applaudito a furore da quel centinaio di spettatori che ogni sera giuocano al pallone nella vastissima platea dell’Argentina, e mi viene assicurato che l’impresario Jacovacci lo ha arruolato nelle sue schiere per T anno venturo. Il ballo si regge per merito della Zucchi, graziosa ballerina. In complesso, però, affari magri, e per verità a Roma si può desiderare qualche cosa di meglio. Per chi non si contenta dell’Argentina vi è il Politeama colla Norma. Il Politeama è un teatro testé rinnovato e dà le sue rappresentazioni alle 6, proprio all’ora che i galantuomini pranzano. Vi confesso umilmente il mio peccato. Non ho ancora avuto il coraggio di sacrificare il pranzo per fare una passeggiata fino in Trastevere dove questa Norma canta ogni sera la sua invocazione alla luna. Mi dicono però che non vi è malaccio, ed io mi riservo di parlarvene quando l’avrò udita. E più facile andare da Milano a Monza che dalla piazza Colonna fino in Trastevere. Gli accademici di Santa Cecilia dovrebbero ora discutere un progetto di Liceo preparato da una Commissione che ha pure in pronto gli statuti per una cassa di mutuo soccorso fra gli artisti di musica. Ma per tenere un’adunanza generale e discutere il lavoro della Commissione manca una cosa importante, la sala per la riunione. Il governo che lasciò in pace ne’ loro conventi frati e monache e perfino i gesuiti, si affrettò a scacciare TAccademia di Santa Cecilia dal locale che occupava, per collocarvi un ufficio governativo. Santa Cecilia e i suoi accademici furono mandati a domicilio coatto in un granaio di via Ripetta, dove non c’è posto di muoversi. Compiuta questa prodezza, l’onorevole Sella e il suo alter ego Giacomelli si congratularono a vicenda d’aver salvata la patria. I buoni accademici sperano, ciornalgrado che il governo italiano li aiuterà a stabilire il Liceo. Questa è fede robusta. Posto il caso improbabile che il governo fosse disposto a far qualche cosa, dovrebbe pur rivolgersi al Parlamento il quale per il Liceo musicale di Roma non spenderà mai un baiocco. Questa è la verità nuda e cruda. Del resto, siamo giusti; il governo che ha già sulle spalle tre o quattro conservatorii, deve istituirne uno nuovo a Roma? Questo dovere non ispetterebbe piuttosto alla Provincia e al Municipio? È a questi che deve rivolgersi T Accademia di Santa Cecilia, se vuole veramente che le sue proposte abbiano qualche probabilità di essere adottate. A che pascersi di illusioni? Intanto convien dar lode allo Sgambati ed al Pinelli, due bravi giovani che ora fanno scuola gratuitamente di pianoforte e di violino. Questo fatto dimostra che agli artisti romani non manca la volontà di far bene, e che in alcuni di loro si trova un disinteresse assai raro in persone che dall’arte devono ritrarre il proprio sostentamento. A... TORINO, 16 maggio. H primo Concerto Popolare al Teatro Vittorio Emanuele - (Sinfonia di Foroni Sinfonia eroica di Beethoven - Sinfonia dello Struensée di Meyerbeer - 1. Preludio del Lohengrin di Wagner - Sinfonia della Gazza Ladra di RossiniJ - Altri teatri, Perchè in Italia non abbiamo Concerti Popolari? Le ragioni sono molte. ma la principale si è quella che manca il popolo, ossia la quantità di gente necessaria per incassare una grossa somma col mezzo di piccole entrate. Nelle grandi città capitali, tra la popolazione stabile e quella fluttuante, tra lo sciame dei curiosi e quello degli amatori, non è difficile avere il contingente di pubblico necessario ai Concerti popolari; ma in quelle secondarie o dove gli abitanti si contano a qualche centinaio di migliaia, per quanto portati siano per il teatro e per gli altri spettacoli, è impossibile raggranellare il numero indispensabile e ei si rimetteranno sempre le spese. La Commissione promotrice di quelli che si sono inaugurati domenica scorsa al Teatro Vittorio ha sciolto felicemente il problema formando una società per azioni di lire dieci annue cadauna, colle quali, assicurate in parte le spese, sono resi possibili i Concerti Popolari, ossia i trattenimenti di musica classica a buon mercato per istruzione degli studiosi, per vantaggio degli artisti, per incremento dell’arte, per educazione artistica di quella parte di popolo che frequentando piccoli teatri non ha nemmeno l’idea d’una grandiosa composizione orchestrale. La commissione, formata di ragguardevoli personaggi appartenenti alcuni alla classe più elevata della società, altri al novero dei più dotti ed appassionati cultori dell’arte musicale, avendo escluso la speculazione e fatto invece luogo alla beneficenza, ha trovato buon numero di azionisti in breve spazio di tempo e l’istituzione dei Concerti Popolari di musica classica in Torino è un fatto compiuto. Alle ore due del pomeriggio del 12 corrente ebbe luogo il primo Concerto Popolare di musica classica: il programma era tutto sinfonico e l’orchestra, formata di ottanta professori gentilmente coadiuvati da parecchi dilettanti, era guidata dal chiarissimo maestro cav. Pedrotti, il quale con quella passione per l’arte che tanto lo distingue ha rinunziato a qualsiasi emolumento. Il vasto recinto del teatro Vittorio Emanuele era abbastanza popolato in platea, scarso in prima galleria e in proporzione assai più numeroso nella seconda galleria dove infimo era il prezzo del biglietto. Il pezzo scelto a degnamente inaugurare questa solennità musicale è stato la sinfonia fantastica in Do minore di Foroni, lavoro udito solo qualche volta nei trattenimenti dell’Accademia Filarmonica, ma in ogni caso reso nuovissimo dalla calorosa interpretazione del Pedrotti e de’ suoi con un successo di entusiàsmo tale che la parola non vale ad esprimere; l’allegro ha addirittura elettrizzato il pubblico, e ignari e dotti, giovani e vecchi, uomini e donne sono stati rapiti da quel fascino dei violini librantisi con tanto garbo e con tanta vivacità nelle note acute: quella sinfonia è stata una rivelazione della potenza del genio di Foroni e perciò della supremazia che gli italiani tengono sugli stranieri anche nel genere sinfonico-classico di cui particolarmente vanno superbi i tedeschi antichi e moderni e i teutofili loro adoratori, mentre gli insistenti applausi, la prolungata e ripetuta ovazione fragorosissima al Pedrotti ed all’in