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Al proselito numero è unito il Numero 4 della RIVISTA MINIMA. E LA STAMPA ITALIANA Continuiamo a riprodurre i giudizii dei giornali intorno al nuovo lavoro di Verdi. Il raccogliere le opinioni della stampa sopra un avvenimento musicale di tanta importanza non è ozioso pascolo alla curiosità dei lettori, come può parere sulle prime; al contrario ha un interesse storico grandissimo. L’appendicista della Perseveranza, dopo aver ragionato dei caratteri generali delVA^ in una intera appendice, la esamina parte a parte in altre due, delle quali riportiamo i punti principali: «Il preludio dell’Aida è un pezzo di stile fugato, appoggiato specialmente agli archi, e si svolge sopra i due temi cardinali dell’òpera, quello che accompagna sempre l’apparizione d’Aida e il corale dei sacerdoti; è lavoro da maestro e musicista, nel quale anziché trovare una rimembranza del Lohengrin, che non c’è punto, troverei invece un po’ di quell’avviluppamento e serpeggiamento armonico che caratterizza il preludio del Eaust di Gounod; ma non è che un’analogia, oserei dire meccanica: questo pezzo si gusta molto di più quando si conoscono bene i due temi, cioè quando si è di già bene udita l’opera. Nella prima scena fra Ramfis e Radamès i musicisti possono ammirare un bel lavoro d’imitazione dei violoncelli nell’accompagnamento; il carattere sacerdotale è già ben designato, e questa maniera di trattare il recitativo non è molto lontana dal genere wagneriano. La romanza di Radamès è una melodia italiana nello stretto senso della parola, di colore sereno, affettuosa e accompagnata deliziosamente dall’orchestra, specialmente la second’a volta con quelle leggerissime sestine d’armonie suonate con effetto di sordino.’ Nel recitativo che precede, alcuni accordi di trombe, esprimenti l’ardore guerriero di Radamès, fanno bel contrasto coll’accento patetico ed affettuoso della romanza: Celeste Aida, forma divina. «Il primo atto è in due parti: la prima parte finisce con un pezzo d’insieme; Radamès, per volere d’Iside, è designato a supremo duce degli Egiziani, contro gli Etiopi, e un grande Inno di guerra solennizza il patrioltico avvenimento. L’effetto fu straordinario sul pubblico, fino dalla prima sera, a cagione della grandiosità e di quella tale magniloquenza che un critico novellino non seppe o non volle trovare. «La seconda parte del primo atto che costituisce il primo finale, è la consacrazione di Radamès nel tempio di Vulcano, perchè nell’antico Egitto nes. sun ufficio civile o militare era scompagnato dalla consacrazione religiosa. In questa parte dell’Aida Verdi ha dato saggio di una rara facoltà d’invenzione, d’una potenza straordinaria nell’immedesimarsi il soggetto. Sotto questo punto di vista, è la parte più pregevole e più originale dello spartito. Qui il drammatico non c’è: c’è il grandioso, il solenne: c’è l’Egitto antico, c’è la sua religione fatale che dominava, le sue strane cerimonie miste di danze jeratiche, che poscia per vie di transizioni, di spostamenti ’d’idee, di costumi e di credenze si cangiarono in danze d’Aimée e di Bajadere. «Nel secondo atto le bellezze si avvicendano senza interruzione e con grande varietà di tavolozza musicale. La prima scena è un bell’intreccio di musica corale e di danza e ha per intercalare una melodica, graziosa frase di Amneris, Ah! vieni amor mio, m’inebria. La perorazione del coro, elegantissima, arieggia un poco la proposta del Bolero dei Vespri Siciliani, e finisce con una bella modulazione in sol maggiore di stile gounodiano. La danza dei moretti è una vera trovata, per la vivezza del motivo, e il carattere giusto: sono caratteristiche e di molto effetto alla fine le sovrapposizioni dei due toni di do e di sol. Questo pezzo, tutto brio, vivacità, spigliatezza, con efficacissimo contrasto, si converte subito dopo in uno scoppio d’ira e di passione, nel dialogo fra Aida e Amneris, le due innamorate di Radamès. È il più bel duetto a due voci di donna che Verdi abbia scritto: (1) la parola e la nota sono inseparate nell’espressione dell’ira gelosa della figlia del Re, e dell’affetto della schiava Etiopica. In questo duetto appare più che mai l’autore del Don Carlos, ma con frasi nuove, specialmente quella in si bemolle, iniziata dall’orchestra e poscia ripetuta con tanto effetto dalle voci. II pubblico, ogni sera, riudendola se ne sente tutto consolato. «Eccoci al finale secondo, ch’è il pezzo più grandioso, più complicato dell’opera, perchè è tutto un vasto amalgama di marcia, ballabili, corali, adagio e stretta, subordinatamente ad un concetto sintetico che insieme li unisce. I vecchi autori, il Mercadante specialmente limitava le proporzioni, e concentrava tutta l’attenzione sul famoso ed inevitabile largo del finale, che stava da sè, senza legame musicale, nè drammatico. Il Verdi, invece, seguendo un sistema, già iniziato stupendamente nel Don Carlos, abbraccia tutto un episodio drammatico, sceglie alcuni concetti cardinali, li svolge, li ripete, li coordina in un solo quadro di vaste dimensioni. «Tale è il grandioso finale dell’Aida. L’analisi minuta di tutto questo pezzo colossale riescirebbe molto lunga, e oltre lo spazio che mi manca, temo orribilmente che annoierei chi mi legge. Non farò adunque che qualche cenno. La marcia è complicatissima e può ricordare quella àeW Africana, ma solamente per l’effetto visivo; non perii musicale. In questa dell’AùZa c’è altro stile, altre idee, e per giunta varie sezioni corali: molti episodi la compongono, ma il sostegno principale è il coro generale Gloria all’Egitto; c’è poi un altro coro in mi bemolle: S’intrecci il loto, il corale fugato dei sacerdoti, un ballabile, e il famoso motivo delle trombe: tutto ciò va e viene, s’intreccia, crescendo d’effetto e di sonorità. Non oserei dire che tutto sia bello in questa marcia: il motivo del ballabile è stiracchiato (2), meno quando gli archi sulla quarta corda intuonano un motiva in fa, di stile etiopico, come di consimili ce ne ha trascritti lo Gosstchalk (!) nei suoi pezzi di piano intitolati Bamboula e Bananier. La soverchia ampiezza di questa marcia la fa peccare anche di lungaggine e di prolissità (3). Il fugato dei sacerdoti, da principio è chiarissimo, ma poi s’ingolfa in urti di note, poco aggradevoli all’orecchio. Il taglio di nove battute fatte dal Bottesini al Cairo è stato opportunissimo. In questa marcia le famose trombe lunghe, inventate dal compositore medesimo (4), suonano un motivo strano ma molto caratteristico e che diventerà popolare: sono a due sezioni di tre per ciascheduna, in la bemolle e in si maggiore; il passaggio, la fazione dei due toni sono d’un artificio ingegnosissimo.. Il punto drammatico del finale è quando Aida scopre suo padre Amonasro nelle file degli schiavi Etiopi. È lo stesso Amonasro, baritono, che propone la frase dominante dell’adagio in fa: questa frase è bella, nuova, un complesso singolare, nel quale non si sa se domini di più l’armonia o la melodia: c’è nella sesta battuta una discesa di quinte da spaventare i pedanti e che, a dir vero, fa anche un po’ male agli orecchi (5); ma ad un Verdi certe licenze sono permessissime. (1) Qui il dotto appendicista si è lasciato trarre in errore dal desiderio di fare un confronto; il duetto tra Amneris ed Aida non può essere il più bel duetto a voci di donna che Verdi abbia scritto, per la semplice ragione che è il primo duetto a voci di donna che Verdi abbia scritto. (2) (3) (5) I nostri lettori ricordano certamente.il giudizio che di questo finale dava lo stesso Filippi dopo’ la rappresentazione al Cairo. Noi lo trascriviamo qui per rammentarlo al suo autore che sembra essersene dimenticato: «Il secondo atto si compone di un grazioso coretto di donne, di un magnifico duetto fra Aida e Amneris e poscia di un grandioso finale; questo pezzo colossale comincia con una gran marcia complicata di cori. ballabili e si sviluppa in un adagio e stretta; tutte le parti si accordano insieme con belle proporzioni e con istraordinario effetto. Le frasi sono ispirate, con una efficacia drammatica che mette i brividi indosso e qui ha suscitato l’entusiasmo di coloro persino che mai, dacché sono al mondo, batterono le mani. - Verdi non fece mai nulla di più grandioso, di più bello.» (4) È un errore; Verdi non ha inventato nulla; la tromba di cui si serve in questa marcia non è che "la tromba diritta di cui si servivano gli anti