Pagina:Ghislanzoni - Abrakadabra, Milano, Brigola, 1884.djvu/228

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— Sollevò il capo e mi stese le braccia, profferendo la parola del Cristo morente... «ho sete!»

— Gli sventurati hanno sete di pietà e di amore — interruppe l’Albani.

— Infatti — proseguì l’Immolata — l’acqua che io gli porsi non valse a dissetarlo...

— Oh! mi sovvengo— riprese l’Albani contemplando con espressione di viva riconoscenza e di affetto il bel volto della donna; mi sovvengo di tutto... Eppure, in quella notte gli ardori del mio labbro furono ammorzati!...

— Ti rammenti di qual maniera? — chiese Glicinia sollevandosi e affiggendo amorosamente la bocca a quella dell’infermo. — Tu mi attiravi al tuo petto esclamando: «io ti ringrazio... io ti benedico... I tuoi baci mi daranno la forza di vivere... e di soffrire.»

La reminiscenza di una ebbrezza sovrumana, ravvivata dall’aspetto, dalla voce, dalle ardenti carezze di una donna incomparabilmente leggiadra, operarono il miracolo.

Ripetendo con voce sussultante le parole della enfatica narratrice, l’Albani aveva ripreso, colle illusioni del passato, tutta la energia del suo temperamento giovanile. Quel lungo duetto di amore si chiuse con una cabaletta che il gusto musicale dell’epoca nostra ci impone di sopprimere.

L’impeto della passione non poteva durare a lungo nella fibra estenuata dell’infermo. Quando il Virey e fratello Consolatore rientrarono poco dopo nella stanza, l’Albani era ricaduto nel letargo; ma il pallido volto supino ai guanciali pareva tuttavia irradiato di felicità, e il labbro atteggiato al sorriso rivelava la calma serena degli organi intelligenti.

Il Primate si accostò al letto. Posò la mano sul cuore dell’infermo, e guardando fissamente la donna, colla espressione