Pagina:Ghislanzoni - Racconti politici, Milano, Sonzogno, 1876.djvu/125

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— Se non m'inganno... per temperare le penne...

— E quali penne speravate di temperare...?

— Le penne che s'usano da noi a Capizzone, le penne d'oca...

— Scellerato! brigante!... io so bene di qual'oca intendete parlare! conosco il gergo impudente della canaglia riottosa... Frattanto andate in prigione, e ricordatevi che l'oca ha due becchi, e guai a chi ardisce toccarla! —

Oltremodo soddisfatto del proprio epigramma, il conte chiuse il processo, accennando ai birri di condurre il prigioniero al numero 24.

Rinchiuso nella orribile cameraccia, il povero Dolci si gettò boccone sovra il pagliericcio.

Nel carcere e perfino sui gradini del patibolo ai martiri volontari è conforto il pensiero della pubblica riconoscenza, la speranza di una fama gloriosa. Ma il nipote di don Dionigi può egli forse immaginare che tutta Milano parli di lui coll'entusiasmo dell'ammirazione; che il nome di Teodoro Dolci si ripeta da mille labbra con quello dei Ferruccio e dei Balilla; che cento leggiadre fanciulle sospirino per l'eroe di Capizzone, e cento madri lo additino ai figliuoli quale esempio di fede e di virtù cittadine?

Il 2 gennaio, colla vettura del Brunetto, don Dionigi Quaglia giunse a Milano per ricondurre il nipote.

Immagina, lettore, qual rimanesse il buon prete all'annunzio della nuova sciagura.

— Ma dunque me l'hanno stregato, quel povero ragazzo! Che il diavolo gli fosse entrato nel corpo per trascinarlo alla eterna perdizione!...

— Non vi è dubbio, — rispose Carlo Obrizzi coll'enfasi consueta. — Il signor Teodoro è un vero diavolo. La si figuri, signor don Dionigi, che, per condurlo prigione, a mala pena bastarono dugento poliziotti armati dai piedi alla testa!!!