Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano IX.djvu/219

Da Wikisource.

dell'impero romano cap xlviii. 213

nore e di gratitudine. Dopo la loro sconfitta, pieno di spavento chiese l’Imperatore un trattato, e tale era la moderazione d’Isacco Comneno, che già vi acconsentiva; ma venne Michele tradito da’ suoi ambasciatori, e Comneno avvertito da’ suoi amici. Il primo, abbandonato da tutti, si sottomise al voto del popolo; il Patriarca sciolse la nazione dal giuramento prestato di fedeltà; e nel punto ch’ei rase il capo dell’Imperatore, che rilegavasi in un monastero, si congratulò seco, ch’egli cangiasse una corona terrestre col regno de’ cieli; cambio però che quell’ecclesiastico non avrebbe probabilmente accettato per sè medesimo. Lo stesso Patriarca coronò solennemente Isacco Comneno; potè la spada, ch’ei fece incidere sulle monete, essere risguardata come un simbolo insultante, se indicar volea il diritto di conquista, ch’avea assicurato il trono a Comneno; ma quella spada era stata sguainata contro i nemici dello Stato, stranieri o domestici. Lo scadimento di salute e di forze ne scemò l’attività; scorgendosi vicino a morire, determinossi di porre qualche intervallo fra il soglio e l’eternità. Ma in vece di lasciare l’Impero in dote a sua figlia, cedeva egli alla ragione ed alla inclinazione che l’eccitavano a consegnare lo scettro nelle mani di suo fratello Giovanni, principe guerriero e patriotta, e padre di cinque figli, che mantener doveano la corona nella famiglia. Nei modesti rifiuti di costui si potè da principio ravvisare un naturale effetto della considerazione e dell’attaccamento che avea pel fratello, e per la nipote; ma, nella sua inflessibile ostinazione in ricusare l’Impero, avvegnachè abbellita dai colori della virtù, condannar si dee una colpevole dimenticanza