Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano VII.djvu/295

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dell'impero romano cap. xl. 289

di non potere essere mai veduta, neppure un giorno, senza il diadema e la porpora; che io non possa più vedere la luce, quando cesserò d’essere salutata col nome di Regina. Se voi risolvete, o Cesare, di fuggire, avete de’ tesori; ecco qua il mare, avete delle navi; ma tremate, che il desiderio della vita non v’esponga ad un miserabile esilio, e ad una ignominiosa morte. Quanto a me, approvo quell’antica massima, che il trono è un glorioso sepolcro„. La fermezza d’una donna fece risorgere il coraggio di deliberare e d’agire, ed il coraggio ben presto scuopre i rimedi nella situazione anche più disperata. Quello di ravvivar l’animosità delle due fazioni fu un mezzo facile e decisivo; gli Azzurri restaron sorpresi della propria colpa e follìa nell’essersi lasciati indurre per un’ingiuria da nulla a cospirare con gl’implacabili loro nemici contro un grazioso e liberale benefattore; proclamarono essi di nuovo la maestà di Giustiniano, ed i Verdi restarono soli col loro novello Imperatore nell’Ippodromo. Era dubbiosa la fedeltà delle guardie; ma la militar forza di Giustiniano sostenevasi da tremila Veterani, che s’erano formati al valore, ed alla disciplina nelle guerre Persiane ed Illiriche. Sotto il comando di Belisario e di Mondo, marciarono questi con silenzio in due divisioni dal Palazzo; si fecero strada per oscuri e stretti sentieri a traverso di fiamme spiranti, e di cadenti edifizi, e spalancarono in un istesso tempo le due opposte porte dell’Ippodromo. In uno spazio sì angusto la moltitudine disordinata e sorpresa non fu capace di resistere ad un fermo e regolare attacco da due parti; gli Azzurri segnalarono il furore del loro pentimento; e si conta, che restassero uccise trentamila