Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano VIII.djvu/105

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dell'impero romano cap. xliii. 101

produsse una febbre ardente e quasi mortale: e Roma rimase abbandonata senza difesa alla clemenza od allo sdegno di Totila. La continuazione delle ostilità aveva invelenito gli odii nazionali; il clero Arriano fu ignominiosamente cacciato di Roma. L’Arcidiacono Pelagio tornò, senza alcun successo, dal campo dei Goti ove era andato ad Ambasciatore, ed un Vescovo Siciliano, inviato o nunzio del Papa, ebbe mutilate ambe le mani per avere ardito di mentire in benefizio della Chiesa e dello Stato.

[A. D. 546] La carestia aveva rilassato la forza e la disciplina del presidio di Roma. Esso non poteva ricavare alcun servizio efficace da un Popolo moribondo; e l’inumana avarizia del Mercatante finì con assorbire la vigilanza del Governatore. Quattro sentinelle Isauriche, mentre dormivano i loro compagni ed assenti erano gli Ufficiali, si calarono con una corda giù dal bastione, e segretamente proposero al Re Goto d’introdurre le sue truppe nella città. Con freddezza e sospetto fu accolta l’offerta; essi ritornarono senza alcun danno; due volte ripeterono la visita loro; due volte fu esaminata la piazza; si riseppe la cospirazione, ma non vi si pose mente; ed appena Totila ebbe acconsentito al tentativo, essi dischiusero la porta Asinaria, e misero dentro i Goti. Questi fecero alto in ordine di battaglia, sino allo schiarire del giorno, temendo un qualche tradimento od aguato; ma le truppe di Bessa, insieme col lor condottiere, avevano già cercato altrove uno scampo; ed allorquando si fece istanza al Re perchè ne infestasse la ritirata, assennatamente egli rispose che nessuna vista era più grata che quella d’un nemico fuggente. I Patrizii a cui restava qualche cavallo, Decio, Basilio ec. accompagnarono il