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dell'impero romano cap. lii. |
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sovrano e profanarono la moschea e l’harem. Se i Califfi si riparavano nel campo, o alla Corte d’un principe vicino, non era che un cangiare di servitù; finalmente la disperazione li trasse a chiamare i Bowidi, soldani della Persia, le cui armi invincibili attutirono le fazioni di Bagdad. Moezaldowlat, secondo dei tre fratelli Bowidi, s’arrogò il poter civile e militare, e volle ben generosamente assegnare sessantamila lire sterline per le spese private del comandante dei fedeli. Ma quaranta giorni dopo la rivoluzione, in un’udienza data agli ambasciatori del Chorasan e sotto gli occhi d’una moltitudine sbigottita, i Dilemiti, per ordine del principe straniero, svelsero il Califfo dal trono, e lo strascinarono in un carcere. Gli saccheggiarono il palazzo, gli cavarono gli occhi, e tanta fu l’ambizion degli Abbassidi che non dubitarono d’aspirare ancora ad una corona sì pericolosa e avvilita. I voluttuosi Califfi ritrovarono nella scuola dell’avversità le virtù austere e frugali dei primi tempi della lor religione. Spogliati dell’armatura e del vestimento di seta digiunavano, pregavano, studiavano il Corano e la tradizion dei Sonniti, adempievano con zelo, e da uomini istruiti, gli uffici della lor dignità ecclesiastica. Sempre in essi erano rispettati dalle nazioni i successori dell’appostolo, gli oracoli della legge o della coscienza dei fedeli; qualche volta dalla debolezza e dalle discordie dei lor tiranni fu renduta a loro la sovranità di Bagdad, ma era cresciuta la lor disgrazia col trionfo dei Fattimiti, veri o falsi discendenti di Alì. Questi rivali fortunati, venuti dalla estremità dell’Affrica, aveano annientata in Egitto e in Sorìa l’autorità spirituale e temporale degli Abbassidi, ed il monarca del Nilo insultava l’umil pontefice delle rive del Tigri.