Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano XII.djvu/185

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dell'impero romano cap. lxii. 181

tive, non giovò che a far risplendere maggiormente la pazienza del Sovrano. La filosofia del nostro secolo perdonerà, non v’ha dubbio, a questo principe una debolezza cui compensava un complesso raro di virtù; e quegli stessi contemporanei che mitemente giudicarono le più impetuose e fatali passioni di Lascaris, non seppero negare ai falli di Vatace un’indulgenza ai restauratori degl’Imperi dovuta1. Que’ Greci, i quali, privi di leggi e di tranquillità, gemevano tuttavia sotto il giogo latino, invidiavano la felicità di quei lor confratelli che già riacquistata aveano la civile libertà; e Vatace con una politica non condannevole, metteva ogni sollecitudine a persuaderli de’ vantaggi che migrando al regno di lui avrebbero trovati.

[A. D. 1255-1259] Appena ci facciamo a paragonare i regni di Giovanni Vatace, e di Teodoro, figlio di lui e successore, appaiono manifesti il tralignamento e la differenza tra il fondatore, poi reggitore dell’Impero fondato, e l’erede in cui non era che lo splendore a lui preparato dal padre2. Non vuole cionnullameno negarsi qualche forza d’animo a Teodoro; allevato alla scuola paterna, addestrato nella caccia e nella guerra, poteva egli del tutto mancarne? Benchè Costantinopoli non abbia ceduto all’armi di

  1. Si paragonino i due primi libri di Niceforo Gregoras con Acropolita (c. 18-52).
  2. Correa un proverbio persiano: Ciro padre, Dario padrone; il qual proverbio venne applicato a Vatace e al figlio di Vatace; ma Pachimero ha confuso Dario, umano principe, con Cambise, despota e tiranno del popolo. Furono le gravose tasse imposte da Dario, che gli procacciarono il nome meno odioso e più spregevole di Καπελος, merciaiuolo o sensale (Erodoto, III, 89).