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232 del rinnovamento civile d'italia


Certo una nazione che delibera se debba esser nazione cade in una meschina petizion di principio, mettendo in dubbio un fatto e un diritto fondamentale da cui dipende il valore de’ suoi decreti. Ora stando che non si dia nazione senza connubio dei popoli congeneri e conterranei, come tosto due o piú di questi hanno il taglio di stringersi insieme e diminuire lo scisma nazionale, debbono farlo senza consulta, riserbando a tempo opportuno i termini dell’accordo. E questo debito ha luogo principalmente quando si è a fronte di nemici esterni e formidabili, e che l’unione ricercasi a raccogliere con celeritá le forze e adoperarle con vigore alla comune salvezza. Perciò è da dolere che i signori di Milano commettessero tale errore e indugiassero in oltre ad aprire i registri. Questi e simili falli erano certo in sé leggieri, ma partorirono effetti notabili perché avvalorati e aggravati dalle maggiori colpe del Piemonte.

Il Piemonte e in ispecie la sua capitale è dopo la Sicilia il paese piú scarso di spiriti italici, avvezzo per antico a vita appartata e ristretta e domo da abitudini feudali e servili. Piú anima e generositá e nervo si trova in alcune provincie; onde se l’Alfieri astigiano parve un miracolo, torinese sarebbe un mostro. I municipali di Torino presero l’assunto di spegner l’opera di quel grande, ritirando indietro dall’italianitá i subalpini, a cui educati e innalzati gli aveva. E riuscirono. Senza le lor malefatte quelle degli altri aveano riparo; né i puritani medesimi avrebbero potuto dare l’ultimo crollo al cadente edifizio, se il Piemonte municipale non avesse porta la mano. Questa fazione è composta di uomini di varie classi ma specialmente di patrizi e di avvocati, inclinati al municipalismo dal genio cortigiano e dal genio forense. Temono essi che Torino, incorporandosi al resto o almeno ad una parte notabile d’Italia, non venga a perdere i privilegi di corte e di metropoli; e che un Piemonte

    aprile del ’48, quando io non avea ancora notizia degli indugi ulteriori. Nelle pagine seguenti sciolsi le obbiezioni e toccai l’assurdo della sentenza che «assegna al diritto per base unica e suprema il volere espresso dei piú, come se l’arbitrio degli uomini e non l’ immutabile ragion delle cose fosse la radice e la norma sovrana della giustizia» (ibid., p. lx).