Pagina:Gioberti - Del rinnovamento civile d'Italia, vol. 1, 1911 - BEIC 1832099.djvu/261

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libro primo - capitolo nono 255


venuto a sua istanza in un paese che per l’assenza di molti anni mi riusciva quasi nuovo benché mi fosse nativo, se avessi antiveduto di esservi solo e di averci per nemici politici i pochi a cui mi stringeva un’antica dimestichezza. Il che sarebbe accaduto, s’egli consentiva a far parte di un governo in cui io ravvisava la certa rovina d’Italia e che mi teneva in obbligo di combattere con ogni mio potere. Né la nostra divisione sarebbe stata solo dolorosa a noi ma anco pregiudiziale alla causa comune, avvalorando lo scisma del parlamento e frapponendo maggiori ostacoli a quella riconciliazione che sedeva in cima de’ miei pensieri. Non pure le amicizie private ma eziandio le politiche non doversi troncar leggermente; e se non è mai lecito il far contro coscienza, ben si può e si dee talvolta differir di operare per non dividersi dal compagno.

Il Pinelli fu inesorabile, perché stimava «viltá il ritrarsi dal prestar mano alla cosa pubblica»1, come se in vece di esservi portato naturalmente, non si fosse ingerito con arte, abusando la mia fiducia. La vera ragione fu che, avendo Urbano Rattazzi emulo suo nel fòro di Casale e vincitore nel parlamento assaggiato il ministero, il ben della patria voleva che il Pinelli gli sottentrasse e «prestasse mano alla cosa pubblica» per peggiorarne le condizioni. Imperocché senza di lui il nuovo ministero avrebbe avuto probabilmente poca vita: si poteva rientrar nella buona via e ripigliare l’opera interrotta. D’altra parte l’immaginarsi che la mediazione fosse per sortire l’intento era tal follia che non potea capire nei politici piú comunali. La storia

  1. «Egli mi scongiurava a non far parte del gabinetto: io gli risposi che la sua idea mi pareva impossibile a praticarsi, che in sí gravi momenti stimava viltá ritrarmi dal prestar mano alla cosa pubblica; e mi lasciò dicendomi che si sarebbe trovato nella necessitá di combattermi» (Pinelli, Alcuni schiarimenti ecc., p. 5). Il racconto che il Pinelli fa del colloquio passato seco è, a dir poco, gremito d’inesattezze: mi attribuisce ragioni insulse e ridicole, e conchiude che «io rispondeva» alle sue «coll’impeto della fede» (ibid.). Io ho narrato nel libretto dei Due programmi i ragionamenti che ebbi col Revel sullo stesso proposito; e quelli che corsero col Pinelli non ne furono che la ripetizione. Da essi il lettore può vedere che la mia «fede» in politica non è altro che la ragione; e da ciò nasce che i fatti sogliono confermarla.