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della Marmora (che ebbe per qualche tempo l’amministrativa della milizia), occupati assiduamente nei carichi speciali loro affidati, non ebbero agio né tempo di attendere alle cose esterne, che erano di altrui appartenenza. Le stesse ragioni militano per alcuni dei loro colleghi; onde io non ritratto il giudizio che ne portai altrove, salvo i temperamenti nati dai fatti che allora mi erano ignoti1. Non posso quindi comprendere in questo novero il generale Dabormida, che fu allora e poscia gran parte dei nostri mali. Benché egli s’intenda di politica quanto il papa di negromantica, facciasi buona la sua legazione2; imperocché, volendo il Piemonte aggraduirsi l’Austria, non potea meglio eleggere di un soldato il quale la desidera compagna e non ama di assaggiarla nel campo come nemica. Ma per ciò appunto fu grave errore il commettergli il carico di rifare le forze, quasi che possa essere buono ordinatore di guerra chi l’abbomina e agogna sopra ogni cosa a renderla impossibile. Né l’ignoranza, che scusa gli errori politici del generale, può giustificare i suoi portamenti, avendo egli atteso indefessamente a rovinare gli uomini piú benemeriti della causa patria e piú capaci di ristorarla, perseguitandoli coi raggiri, colle maldicenze, con tutte le arti ignobili e solite di coloro in cui prevalgono ad ogni altra dote la mediocritá e l’invidia3.

La stretta convenienza che corre fra i rettori di agosto e quelli di marzo potrebbe parer singolare, se un sol uomo e una sola mente non avesse informate le due amministrazioni. Vincolo e motore di entrambi fu Pierdionigi Pinelli, del quale mi è forza discorrere partitamente, sia per iscusarmi verso coloro che mi appongono di aver contratto e poi rotto seco amicizia, sia perché egli fu la cagion principale delle calamitá italiche per quella parte che ci ebbe la politica del Piemonte. Io era stretto col Pinelli per giovanile ed antica dimestichezza, ed ebbi seco e con

  1. Operette politiche, t. ii, pp. 211, 212.
  2. Histoire des négociations etc., p. 10 segg.
  3. Se altri mi chiedesse perché io chiamassi un tal uomo «tenero delle nostre instituzioni» (Operette politiche, t. ii, p. 212), dovrei entrare in certi ragguagli che desidero di tacere, non giá per mio conto ma per quello de’ miei nemici.