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libro primo - capitolo undecimo 361


singolare lentezza o piú tosto inerzia de’ suoi ministri. La quale io non credo che fosse volontaria, per la ragione che ho giá accennata. Imperocché Gino Capponi bramava ardentemente la lega; conseguita la quale e seco le guarentigie richieste ad assicurare il granduca, io non posso dubitare che un tant’uomo non fosse per consacrare alla guerra patria tutti quei mezzi che erano in suo potere. Ma i ministri piemontesi dei 19 di agosto, non che voler la guerra, rifiutarono ostinatamente essa lega e ne ruppero le pratiche incominciate dai precessori, si alienarono l’animo del pontefice che con ardore la sollecitava, resero inutile lo zelo operoso del Rossi a tal effetto, vennero a screzio coll’uomo grande e ridestarono piú vivi i sospetti che covavano da gran tempo intorno alle mire usurpatrici del Piemonte; i quali, nudriti e cresciuti ad arte dai retrogradi e dai puritani, doveano piú che mai aver forza nei governi deboli e quasi inermi di Firenze e di Roma. Chi può colpare il Capponi di aver prestato orecchio a tali sospetti, mentre erano avvalorati dalla matta politica dei ministri sardi e ottenevano fede presso il sagace ministro di Pio nono?1. Cosicché s’egli è vero che ai primi

  1. Io attribuisco a tali sospetti alcune clausole delle instruzioni date dai ministri di Firenze al loro interprete nel colloquio disegnato di Brusselle. Il proemio di esse è nobile, italiano, e rimuove ogni ombra di affetti municipali. «Il pensiero precipuo del governo toscano, lo scopo al quale esso subordina ogni altro desiderio è l’indipendenza nazionale. I nostri voti e le nostre domande, come italiani, sono grandi e larghissime; come toscani, modestissime sono le nostre pretensioni. Quindi ogni progetto ed ogni sistema, il quale anche senza favorire direttamente gl’interessi toscani assicuri o secondi il principio della nazionale indipendenza, dovrá appoggiarsi con ogni vigore e con tutti i mezzi possibili di persuasione (Farini, Stato romano, t. iii, p. 293). Ma venendo ai particolari e fra le varie ipotesi esaminando se la Lombardia debba unirsi al Piemonte o fare uno Stato da sé sotto un principe di casa Savoia, i ministri toscani stimano che «le deplorabili dissensioni insorte tra i piemontesi e i lombardi in questi ultimi tempi, la rivalitá di Torino e di Milano se facesser parte del medesimo Stato, la utilitá del massimo equilibrio possibile fra gli Stati italiani costituiscono altrettante ragioni di preferenza pel secondo sistema» (ibid., pp. 294, 295). Ma queste considerazioni affatto secondarie doveano cedere a due ragioni supreme: l’una, che l’unione della Lombardia col Piemonte era cosa fatta dal concorso dei popoli e del parlamento, e i disastri campali non poteano annullarla; l’altra, che al bene d’Italia si richiedeva. L’equilibrio era un’idea vecchia, affatto aliena dal nostro Risorgimento, il quale non mirava al bilico ma all’unione, alla forza, all’indipendenza dei vari Stati della penisola. Ora l’unione