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libro secondo - capitolo terzo | 271 |
non basta a far uomini di Stato, se manca la disciplina e le arti frivole suppliscono alle gravi. E anche il valor naturale scarseggia, non essendo l’odierna prelatura come quella di una volta, quando le dignitá ecclesiastiche allettavano gl’ingegni grandi e le virtuose ambizioni. Oggi chi si sente aiutante d’animo e d’intelletto non si suol volgere al santuario né sogna la porpora, perché i forti aspirano alla potenza che sorge e non a quella che declina. Ben s’ intende che parlo solo in generale e che noto il fatto senza volerlo giustificare da ogni lato. 11 vero pur troppo si è che il mondo, da cui la Chiesa una volta aveva il fiore, ora le dá la morchia. E i pochi valenti intristiscono per la torta educazione ecclesiastica e il genio muliebre inserito nella religione, la quale, spogliata di ogni virilitá, snerva gl’ingegni invece d’ingagliardirli. Ma i prelati essendo in Roma la macchina del governo e il principe uscendo da loro per elezione, il papa non può essere migliore del sacro collegio; e benché questo abbia qualche insigne, la probabilitá della scelta si dee misurare dal maggior numero. Perciò, se in antico alcuni papi furono principi grandi, il caso diventa ogni giorno meno probabile. L’etá recente ebbe papi leali ma duri e fanatici, come l’ultimo Leone; papi eruditi in divinitá ma incapaci in politica, come l’ultimo Gregorio; papi benevoli e mansueti, come il sesto,
il settimo e il vivente Pio; ma chi può sperare che sieno per sorgere un Ildebrando, un Peretti, un Giuliano della Rovere o
chi loro somigli? E pure non ci vorrebbe di manco all’effetto. Il conciliatore civile di Roma coll’Italia e col mondo dovrebbe essere «il sommo uomo»1, e rimuovere ogni téma che non
sia per avverarsi moralmente e in metafora la favola immaginata nei bassi secoli come storia2.
L’ incapacitá prelatizia è oggi piú che mai formidabile, avendo Pio nono mutata col fatto la costituzione del regno ecclesiastico.