Pagina:Gioberti - Del rinnovamento civile d'Italia, vol. 3, 1912 - BEIC 1833665.djvu/163

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non lo dismettono che nel declinare degli anni e scemato il vigore, per un savio consiglio di providenza, affinché non prima cessi lo stimolo che sia spenta la vena e la facoltá di operare.

Considerata universalmente, la gloria non è vana per se medesima, essendo la luce che riverbera dall’ intelligibile. Ella è cosa affatto spirituale, perché solo il pensiero può concederla e fruirla; e non ha confini, spaziando per un campo cosi ampio come la mentalitá increata e quella dell’universo. Laonde eziandio fra gli uomini signoreggiati dalle cose sensibili non si dá vera fama senza grandezza ideale. La gloria delle armi e del comando civile, non che contraddire a questa sentenza, la corrobora, poiché non dipende dal solo pregio del senno e del valore ma dal fine; e i re, i capitani, i conquistatori sono gloriosi quando il loro dominio e le loro imprese apportano un progresso notabile di libertá, di giustizia, di cultura e di felicitá pubblica. Trascorri i nomi piú illustri da Ciro a Giorgio Washington, e troverai che l’uomo di Stato o di guerra fu difensor della patria, liberatore di un popolo, propagatore di una civiltá, fondatore di un culto, di un regno, di una repubblica. Se però la natura instilla nei generosi petti il desiderio di signoreggiar largamente nel tempo e nello spazio e di emulare, per cosi dire, l’eternitá e immensitá divina, questa dominazione esterna è solo di lode quando è indirizzata all’ordine intellettuale e morale del mondo. E però Cicerone riconosceva due sole maggioranze legittime, il magisterio e il principato (*). Le quali

colla sua larva. Simili sentenze sono frequentissime negli antichi. Plutarco dice di Pericle che «usava la sua propria ragione, poco curando le grida e gli schiamazzi de’ malcontenti» (Perici., 29). Catone minore, secondo Appiano, «facea stima del giusto e dell’onesto, governandosi non giá coi pareri del volgo ma colla ragion delle cose; e però era tenacissimo del suo proponimento» (De bello civili, li, 490). Dione Cassio, parlando di Annibaie, dice che «la somma delle sue lodi consisteva nell ’attendere alla natura delle cose e non mica allo splendor della fama, salvo i casi in cui questa a quella non ripugnava» (Fragni., XLvn, 3). E il nostro Cellini, benché uomo di popolo, dichiara di «far piú professione di essere che di parere» (Orific., 1, 5).

(1) «Huic veri videndi cupidilati adiuncta est appetitio quaedam principatus, ut nemini parere animus bene a natura in/ormatus velit, tiisi praecipienti aut docenti , aut ulilitaiis causa, iuste et legitime imperanti: ex quo animi magnitudo exsistit, humanarumque rerum contemptio» (De off., 1, 4).