Pagina:Gioberti - Del rinnovamento civile d'Italia, vol. 3, 1912 - BEIC 1833665.djvu/88

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spuri e usurpatori, dobbiam sapergli grado di essere risalito a una signoria laicale e a Roma antica per rifare il mondo de’ suoi tempi. L’errore di aver cercato in Germania il liberatore d’ Italia merita scusa, perché questa, divisa, debole, discorde, non aveva un braccio capace di tanta opera. Parvegli di trovare il principio egemonico nell’imperio tedesco, il quale, se perla stirpe era forestiero, pel titolo e la successione apparente potea credersi italico. Ma non volle giá sottoporre l’Italia agli esterni, giacché l’imperatore, recandola a essere di nazione, dovea rimettervi l’avito seggio e rendersi nazionale. Perciò Dante, sostituendo allo scettro bastardo di Costantino e di Carlomagno il giuridico di Giulio Cesare, restituendolo a Roma e annullando l’opera del principe che lo trasferiva in Bisanzio e dei pontefici che lo trapiantavano in Francia, poi nella Magna, si mostrò italianissimo. Egli compose e temperò i placiti dei guelfi con quelli dei ghibellini ; e «facendosi parte per se stesso» ò), non appartenne propriamente a niuna delle due fazioni.

L’uno al pubblico segno i gigli gialli oppone, e quel s’appropria l’altro a parte, si eh’ è forte a veder qual piú si falli.

Faccian li ghibellin, faccian lor arte sott’altro segno, ché mal segue quello sempre chi la giustizia e lui diparte (*).

L’aquila era dunque per Dante il «pubblico segno», cioè il vessillo nazionale e non mica la divisa «propria» di una «parte».

Ma la gloria piú insigne di lui, come politico, fu Ravvisare nel papato civile la causa principale della divisione e della debolezza d’Italia; e distinta la potestá temporale dalla spirituale, attribuire ai soli laici il possesso e il maneggio della prima. «Degno di quell’altissimo intelletto fu il raccomandare ai viventi e ai futuri quei due magnanimi pensieri di bene e di onore

(1) Par., xvii, 69.

(2) Ibid., vi, 101-106.