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168 Fioraccio


ora era di qua ora di là dalla strada: tante volte attraverso agli alberi, mai diritto per dieci passi, e quel povero ciuco durava una fatica, una fatica, come se la cassa fosse stata di massello, di piombo. Quei due lanternoni si spengevano a ogni momento. Ogni tanto si vedeva accostare una specie di nebbia grossa, nera che copriva ad un tratto noi, il barroccio, ogni cosa. I frati badavano a benedire, e tutti noi ci raccomandavamo a Dio e alla Madonna. Anch’io in quel momento avevo perso il coraggio. Il povero prete si dovè fermare a una casa, perchè non poteva venire più avanti. Ma questo non era nulla.

A un tratto alla voltata del mulino di *** ci prese una furiata di vento come un uragano, che schiantò alberi, portò via i pagliai, le tegole del tetto: e intorno a noi fece un mulinello di foglie, di polvere, di paglia e di fastelli. Quando me ne rammento. Dio mio! Che affare, che notte fu quella! D’un vento in quel modo non ho memoria. Due pagliai a *** li portò via, come se fossero stati due pennecchi di stoppa; un pino grossso, che in tre uomini non s’abbracciava, lo svelse e lo portò attraverso il piano. E per gli argini d’Arno le querce diramate, le piante torte come legaccioli: non si vedeva più nè bestia nè barroccio, nulla. Non si sapeva più dove fossimo, e ci si racco-