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802 gli sposi promessi


tempo di bravura comune a quei tempi anche agli uomini i più quieti dei quali era certamente Fermo. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi gioviali risoluti del giovinotto. Che abbia qualche pensiero pel capo, argomentò Fermo, tra sé; poi disse: son venuto, signor curato, per sapere a che ora le convenga che noi ci troviamo in chiesa.

— Di che giorno volete parlare?

— Come, di che giorno? non si ricorda ella che oggi è il giorno stabilito?

— Oggi! replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.

— Oggi non può! che cosa è accaduto?

— Prima di tutto non mi sento bene, vedete.

— Me ne spiace, ma quello ch’ella ha da fare è cosa di sì poco tempo e di sì poca fatica...

— E poi, e poi, e poi...

— E poi che cosa, signor curato?

— E poi ci sono degl’imbrogli.

— Degl’imbrogli? che imbrogli ci ponno essere?

— Bisognerebbe essere nei nostri panni per conoscere quanti impicci v’è in queste materie, quanti conti da rendere. Io sono troppo dolce di cuore, procuro di togliere gli ostacoli, di facilitare tutto, di fare quello che gli altri vogliono, e trascuro il mio dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e peggio.

— Ma col nome del cielo, non mi tenga cosi sulla corda, e mi dica una volta che cosa c’è.

— Sapete voi quante e quante formalità sono necessarie per fare un matrimonio in regola?

— Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa, disse Fermo cominciando ad alterarsi, poiché ella me ne ha già rotta bastantemente la testa questi giorni addietro. Ma ora, non s’è egli sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva da fare? — Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io che trascuro il mio dovere per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel ch’io dico. Noi siamo tra due fuochi;