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la frusta teatrale 109



3. - Comizio romantico


Abbiamo sempre sentito una mezza tentazione — se non ci proibisse una questione di buon gusto dall’assumere disdicevoli atteggiamenti pedanteschi — di riprendere la vecchia predica interrotta che il buon Eduardo Boutet aveva rivolto a Luigi Carini. Poiché non bisogna attendere più a lungo — da questo che fu esordendo tra: più studiosi ed è oggi tra i meno incolti dei nostri attori - il compimento di quei propositi di gusto e di maturità, che alla scuola di Flavio Andò e durante la vicinanza con la Reiter si vennero attenuando in un rassegnato culto del decoro scenico.

La fama di Carini è affidata prevalentemente alla simpatia del pubblico per certe figurazioni di verismo minuzioso e di magniloquenza più tornita che tragica. Anche i suoi tipi più eccezionali, che meglio son rimasti nel cuore delle folle (l’Abatino del «Cantico», Napoleone di «Madame Sans Gène») sono violentemente espressivi e caratteristici più per il lineare entusiasmo e per la declamazione per cui l’attore aderisce all’assunto che per le risorse del sottinteso o per l’acume della penetrazione vitale. C’è tra l’attore e chi lo ascolta legame di troppa immediata simpatia e, invece della dubbiezza propria dell’artista, comunicazione di reciproca sicurezza che è per l’appunto uno degli aspetti della popolarità. Nè a questa candida franchezza noi opporremo il desiderio di un’espressione contorta o misteriosa;ma ci limiteremo a constatarne esauriti i mezzi e chiusi gli orizzonti, nella rumorosa e scapigliata solennità della maledizione scagliata nel terzo atto