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la frusta teatrale 31

dalla caratteristica prima dei suoi cimenti che del resto fu incoraggiata artificialmente dalla smania rumorosa di imitare il trionfo che Emanuel aveva trovato rappresentando la morte per «delirium tremens» nell’Assommoir.

Quella che Bracco chiama semplicità è angustia meccanica di imitatore, precluso ad ogni finezza, costretto a cercare le sue «trovate» nell’«Antropologia criminale», nei manicomii e negli ospedali. Banalità che si appaga di un metodo, sino a rinnegare le impreviste curiosità della critica e che in Tommaso Salvini trovò sin dai primi anni un valido contradditore.

Incapace di fermarsi alle modeste espressioni di misura e di sincerità del teatro naturalista, troppo esperto per raggiungere la purezza classica attraverso queste esperienze fisiche, Ermete Zacconi si salvò dalle inquietudini e dai problemi che incombevano sulla sua mediocrità con un trucco che gli riuscì per l’ignoranza del pubblico (come l’ibsenismo fisiologico di Bracco). Tuttavia la stanchezza cotidiana domina sul processo di inaridimento delle leggi lombrosiane. Zacconi vive a suo agio, è vero, tra gli scherzetti di Testoni e il macabro della propria fantasia. Ma è estraneo al teatro classico, estraneo a Shakespeare, che ha affrontato solo dopo che le grullerie esegetiche del Ferri ridussero l’Amleto e l’Otello alla mentalità dei farmacisti.

Veramente un esame minuzioso del suo repertorio sembrerebbe uno scherzo di cattivo genere e un’imprudente sorpresa. Ma chi vorrà essere così crudele da tentarlo ora che si conosce Zacconi come l’attore di un mondo, in cui persino la Gioconda suscitava gli entusiasmi del capolavoro? Meglio ardire un’ultima volta l’elogio e rallegrarci con lui che seppe vivere, saggio e modesto, del suo