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pregare un scio Dio e abbracciare una sola donna non lo salva dal sospetto dell’inconsistenza («dico dei pensieri miei personali... non ancora ben definiti», pag. 51): il dissidio tornerà a scoppiare quando su quella indefinitezza tornerà ad esercitarsi lo spirito critico.

A questa instabile coscienza s’oppone Mary. Poiché e impossibile liberarsi dal dualismo Mary l’accetta senza discussione. Ella non ha il tempo d’analizzarsi (pag. 141). Ella distingue in sé rigidamente la cantante-attrice dalla donna. E nella donna ancora la «gheisa» dalla vergine.

Posta la distinzione, vi resta fedele, non viene meno alla logica. Accetta tutto. La purezza e la volgarità. Si devono conciliare nella forza d’adattamento la modestia della donna e la curiosità superba dell’attrice. Alda Borelli ha bisogno di questi casi, ha bisogno di compromettere la sua sensibilità eternamente contenuta nello sforzo impassibile. Non si può piegare al gioco di sensualità della donna fatale di Wedekind, alla matta bestialità fisica de Lo spirito della terra vivo senza sottintesi nella bruciante offerta della commossa Melato. Si dovrebbe intendere come ella abbia per sempre rinunciato al giochetto delle attrici che nascondevano in romantiche reticenze o in loquaci lamenti le caratteristiche personali di gattine in amore. La sua rigidezza trova un più franco piacere nella distruzione delle ingiustizie suicide, ermetiche ad ogni confidenza di simpatia.

Andrea propone il sogno d’amore, l’illusione per un mese. Ecco il russo che parla di Dio all’osteria. Ecco l’unità già infranta, il sogno già distinto dalla realtà. Mary accetta, può accettare come attrice per la gioia di mentire a se stessa. E allora con rigorismo ibseniano l’autore im-