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in legno, sarebbe facile assecurare la conservazione di quel capo lavoro artistico.
Il palazzo del provveditore, al quale si è posto mano, sarebbe, qualora lo si ultimasse, edificio di pregevole architettura. Continuano del resto i nobili a fabbricare; ma pur troppo ognuno sull’area dove sorgevano le antiche loro case, e pertanto spesse volte in vie anguste, ed anche attualmente si stà innalzando una facciata stupenda di un seminario, in una stradicciuola remota di un sobborgo.
Mentre stavo girando colla mia guida, passai davanti alla porta grande e di aspetto cupo di un edificio imponente, ed il mio cicerone mi domandò se non volessi entrare per un istante nella corte. Era quello il palazzo di giustizia, e per la grande altezza delle pareti la corte appariva ristrettissima. Il mio cicerone mi disse che ivi si custodivano tutti i malfattori, e gl’individui sospetti. Guardai attorno, e viddi le porte di molte stanze, le quali si aprivano su corridoi, chiusi da cancellate in ferro. Il carcerato, quando esce dalla sua cella per essere portato al tribunale, passa all’aria libera, ma si trova esposto agli sguardi di tutti gli altri; essendo poi quella ora nella quale sedeva il tribunale, si udiva ad ogni piano il romore delle catene. Era romore tutt’altro che piacevole, e confesso che non avrei quivi potuto mantenere l’allegria colla quale scrissi i miei uccelli.
Verso sera salii in cima all’anfiteatro, per godervi la bella vista della città, e dei dintorni. Mi trovavo colassù affatto solo, ed al basso, sull’ampia piazza del Brà, stavano passeggiando moltissime persone, uomini di tutte le condizioni, e donne del ceto medio. Queste, incapucciate nelle loro mantiglie nere, contemplate di lassù a vista d’uccello, avevano propriamente l’aspetto di tante mummie.
Il zendado del resto, è la veste che compongono tutta quanta la guardaroba delle donne da quelle classi, si è tal foggia di vestire la più appropriata ad una popolazione, la quale non si dà sempre pensiero della pulizia,