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capitolo l | 137 |
non vedrà mai la luce pubblica, finchè sarò in vita, nè mai entrerà nel mio teatro italiano. Fu da me composta in un tempo, nel quale il mio animo era troppo agitato, e quantunque avessi corredato questa commedia di scene molto piacevoli, non ebbi poi il tempo di condur le medesime con quella precisione che qualifica le buone opere. Vi saranno forse stati diamanti, ma erano incastonati nel rame. Si conosceva che qualche scena era stata fatta da un autore, ma l’insieme dell’opera da uno scolaro. Confesso bensì che lo scioglimento di questa commedia poteva passare per un capolavoro dell’arte, se alcuni difetti essenziali non avessero recato anticipatamente un pregiudizio all’insieme di essa. Il suo errore principale, per esempio, era quello dell’inverosimiglianza: questa vi si ravvisa in tutti i punti. Ne ho dato sempre il giudizio a mente fredda, nè mi son mai lasciato sedurre dagli applausi. Terminata ch’io l’ebbi, le diedi con attenzione una lettura. Vi trovai tutto quel bello che poteva renderla piacevole, e tutte le imperfezioni delle quali era piena; ciò nonostante la mandai al suo destino.
L’Italia non aveva gustato che i primi saggi della riforma da me ideata: e vi erano tuttavia molti partigiani dell’antico gusto comico. In quanto a me, vivevo sicuro che il mio, senza molto allontanarsi dalla comune e trita condotta, doveva piacere, e doveva parimente stupire per quel misto di espressioni comiche e patetiche che aveva destramente adoperato. Seppi in sèguito quanto era stato fortunato il successo della mia commedia, e ne restai attonito. Ma quale non fu poi la mia maraviglia, allorquando la vidi, al mio arrivo in Francia, applaudita, ripetuta ed innalzata fino alle stelle sul teatro della commedia italiana! Bisogna ben dire, che intervenendo agli spettacoli gli uomini si formino idee e prevenzioni differenti, poichè i Francesi applaudivano al teatro italiano ciò che forse avrebbero condannato in quello della loro nazione. Frattanto, dopo aver mandato il figlio di Arlecchino al signor Sacchi, che doveva esserne il padre, ripresi il consueto corso delle mie giornaliere occupazioni. Avevo da fare spedire parecchie cause; incominciai dunque da quella che a me pareva più importante. Il cliente da difendersi era un contadino: si avverta però, che i contadini della Toscana stanno molto bene, litigano sempre, e pagano benissimo. La maggior parte di loro hanno possessioni a fitto enfiteutico per loro, i figli ed i nipoti. All’entratura del fitto danno una somma conveniente, ed un’annua rendita, e riguardano questi beni come appartenenti a loro stessi, vi si affezionano, hanno cura di migliorarli, e alla fine del fitto i proprietari ci guadagnano. Il mio litigante aveva da farla con un priore d’un convento, che pretendeva far annullare l’affitto, per la ragione che i frati son sempre pupilli, e che potevasi ricavar dalle loro terre un maggiore profitto. Venni in chiaro del monopolio. Una vedovella protetta dal reverendo padre voleva levar di possesso quei poveri villani.
Feci una scrittura di rilievo anche per la nazione, diretta a provar l’importanza della conservazione delle locazioni enfiteutiche, vinsi la mia lite, e tal difesa mi fece un onore infinito. Pochi giorni dopo fui obbligato di recarmi a Firenze per sollecitare un ordine del governo, ad oggetto di far chiudere in un convento una signorina durante una lite già incominciata. Una figlia maggiore e ricca erede aveva firmato un contratto di matrimonio con un gentiluomo fiorentino uffiziale nelle truppe di Toscana, e voleva sposare un altro giovine per il quale aveva una maggiore inclinazione.
Essendo il cliente ed io alla capitale, ella si maneggiò col nuovo