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Pagina:Goldoni - Memorie, Sonzogno, 1888.djvu/146

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144 parte prima

CAPITOLO LIII.

Mio congedo da Firenze. — Sibillone, divertimento letterario. — Partenza dalla Toscana e miei disgusti. — Passaggio dell’Appennino. — Passaggio per Bologna e Ferrara. — Mio arrivo a Mantova. — Miei incomodi, e mia partenza per Modena. — Aggiustamento de’ miei affari con la banca ducale. — Viaggio per Venezia.

Prima di lasciare la Toscana avevo caro di rivedere un’altra volta la città di Firenze, che ne è la capitale. Nel far le mie visite, e prender congedo dalle persone di mia conoscenza, mi fu proposto di andare all’accademia degli Apatisti. Ne avevo già contezza; ma si trattava di vedere in quel giorno il Sibillone, divertimento letterario, che vi si dava di tempo in tempo, nè da me ancora veduto. Il Sibillone, o la gran Sibilla, è un ragazzo di dieci o dodici anni, che vien posto in una cattedra in mezzo della sala dell’assemblea. Una persona scelta a caso nel numero degli assistenti, indirizza una domanda a codesta giovine Sibilla; il ragazzo deve nell’atto stesso pronunziare una parola, e questo è l’oracolo della profetessa ed è la risposta alla questione proposta. Queste risposte, questi oracoli, dati da uno scolare, senza dar luogo alla riflessione, non hanno per lo più senso comune, e però sta sempre accanto alla cattedra uno degli accademici, che, alzandosi dalla sedia, sostiene che il Sibillone ha ben risposto, e si accinge a dar nel momento l’interpretazione dell’oracolo.

Per far conoscere al lettore fin dove può giungere l’immaginazione e l’ardire di uno spirito italiano, renderò conto della domanda, della risposta, e dell’interpretazione di cui fui testimone io medesimo. L’interrogatore, ch’era forestiero come me, pregò la Sibilla di aver la compiacenza di dirgli: Perchè le donne piangano più spesso e più facilmente degli uomini. La Sibilla per risposta pronunziò la parola paglia, e l’interprete indirizzando il discorso all’autore della questione, sostenne che l’oracolo non poteva essere nè più decisivo nè più soddisfacente. Il dotto accademico interprete, che era un abate di circa quarant’anni, grasso, grosso, e di una voce chiara, sonora e piacevole, parlò per tre quarti d’ora continui. Incominciò dal fare l’analisi di tutte le piante fragili, provando, che la paglia sorpassa tutto in leggerezza. Dalla parola paglia passò alla donna, e svolse con non minor velocità che chiarezza una specie di saggio anatomico del corpo umano. Descrisse minutamente la sorgente delle lacrime nei due sessi, provò la delicatezza di fibra nell’uno e la resistenza nell’altro. Terminò in somma con lusingare dolcemente le signore che vi si trovano presenti, attribuendo le belle prerogative della sensibilità alla debolezza, e fu ben cauto di parlare delle lagrime artificiose. Confesso che di questo uomo rimasi colpito. Non si poteva far uso di maggiore scienza, erudizione, e precisione in una materia che finalmente non ne pareva suscettibile. Tali esercizi per vero dire, sono sforzi d’ingegno, son presso a poco sul gusto del Capo d’opera d’un incognito: è però sempre vero che questi rari ingegni son da stimarsi sommamente, non mancando ad essi se non incoraggiamento, per mettersi a livello di tant’altri, e trasmetter con gloria i loro nomi alla posterità. Rientrato quell’istesso giorno in casa, trovai